giovedì 30 luglio 2009

AFGHANISTAN: SIAMO IN GUERRA O NO?

Le vicende della nostra pluriennale missione militare in Afghanistan, causa il surriscaldarsi della situazione sul campo ed il conseguente aumento della frequenza con cui ci giungono dolorose notizie di attentati al nostro contingente, come a quelli di altre nazioni alleate, spesso con militari caduti o feriti, sono ultimamente balzate sotto i riflettori dell'attenzione pubblica come poche volte in precedenza, ed hanno sollevato qualche dubbio e fatto scricchiolare consolidate certezze persino in chi non aveva prima mai minimamente vacillato nel sostenere la necessità del contributo italiano allo sforzo internazionale volto a favorire la ricostruzione materiale e civile, nella indispensabile cornice di sicurezza, di quel martoriato Paese.
Intendiamoci, le parole vagamente accennanti ad un improbabile "ritiro" dei nostri soldati pronunciate, nei giorni scorsi, dagli esponenti leghisti non vanno interpretate come qualcosa di diverso da ciò che sono in realtà state: semplici sfoghi "paterni" di fronte alla triste sorte di tanti bravi ragazzi, secondo la definizione dello stesso ministro della Difesa La Russa, indipendenti dal ruolo politico dei soggetti, che infatti non sono poi venuti meno all'impegno di sostenere la linea di governo in sede di voto di riconferma delle missioni militari all'estero. Del tutto ingiustificati sono perciò, a tale propsito, tanto i timori degli alleati quanto i tentativi di strumentalizzazione del caso da parte dell'opposizione, interessata ad intravedervi segni di frattura all'interno della coalizione governativa.
Tuttavia, un inquietante interrogativo se lo pongono in molti e riguarda, piuttosto, la natura del nostro impegno militare in Afghanistan, dopo che l'intensificarsi dell'attività talebana, l'allentamento di certi "caveat" nazionali e l'invio nel teatro anche di mezzi più tipicamente offensivi quali i bombardieri "Tornado" ( che ora, da semplici ricognitori, pare stiano per essere adibiti anche alle loro più consone mansioni di attacco) sembrano avere a poco a poco reso la missione più simile ad una autentica campagna di guerra che non all'operazione "di pace" originariamente tanto decantata, anche per via del noto imperativo di continuare a servirsi delle solite collaudate formule eufemistiche e "politicamente corrette", onde rendere questi interventi all'estero digeribili ad un'opinione pubblica come la nostra, fino a quando esse fniscono per assumere, spiace dirlo, toni di amara ipocrsia, in quanto diviene evidente che i termini più appropriati per definire certe situazioni sarebbero ormai ben altri.
E inoltre, posto che si tratti davvero di guerra, sarebbe una guerra cui potremmo legittimamente partecipare, vigendo il celeberrimo e sempre citato, a proposito e più spesso a sproposito, articolo 11 della Costituzione?
Intanto, occorre precisare che, essendoci di mezzo dei contingenti militari armati, il confine tra situazione di fatto "di pace" e "di guerra" è sempre parecchio sfumato. Anche la più classica delle missioni propriamente "di pace", cioè quella inviata a vigilare sull'osservanza di un cessate il fuoco già precedentemente sottoscritto da due contendent, quella del tipo, per intenderci, spesso affidato a "caschi blu" dell'ONU (esempio: Libano), può infatti trasformarsi in un episodio di guerra di fatto, anche se non dichiarata (formalità, questa, peraltro caduta in disuso ormai da più di sessant'anni, persino in caso di autentici conflitti "tradizionali"), qualora qualcuno decidesse di rompere la tregua e i soldati in missione venissero attaccati o coinvolti negli scontri. Certo, il rischio pratico di degenerazioni belliche è invero molto più basso in questo genere di missioni che non in operazioni tipo Afghanistan o Iraq, ma, se davvero fosse totalmente nullo, non ci sarebbe neppure il bisogno di inviare contingenti internazionali armati.
Appunto in Afghanistan, dopo una breve fase oggettivamente "combat", cioè di guerra guerreggiata conclusasi con la dissoluzione del regime talebano, protettore dei terroristi islamici responsabili dell'ecatombe dell'11 settembre, il contingente a guida NATO, ISAF, cui partecipa l'Italia, si sobbarca l'onere di favorire e proteggere militarmente il processo di ricostruzione materiale, morale, politico e civile del Paese, nel vuoto di potere creatosi.
E' anch'essa indubbiamente un'operazione "di pace": i soldati stranieri, specie quelli italiani e di qualcun'altra delle nazioni partecipanti, impegnati in assistenza alle popolazioni, opere pubbliche ecc., sono vincolati da rigidi "caveat" e l'uso delle armi è previsto solamente per la difesa in senso stretto. A differenza che nel caso precedentemente esaminato, però, qui non si vigila sull'osservanza di una tregua raggiunta tra due contendenti; il "nemico" non ha siglato alcuna resa o accordo, è solo stato sonoramente battuto in campo aperto, cacciato dalle leve del potere e costretto alla macchia, dove necessita di tempo per riorganizzarsi, prima di tornare a rappresentare un pericolo.
In effetti, dopo pochi anni di relativa tranquillità, duante i quali quella in Afghanistan sembrava quasi diventata una missione di pace di routine come tante altre, l'insorgenza talebana esplode con inaspettata virulenza, trasformando particolarmente alcune regioni del Paese in scenari di guerriglia e costringendo i reparti NATO ivi schierati ad un brusco cambio di atteggiamento.
Per l'Italia, schierata in zone meno direttamente ivestite dal fenomeno, ma pur sempre esposta a maggiori pericoli e tensioni, cominciano la crisi di identità sul proprio ruolo e gli equilibrismi politici per cercare, al tempo stesso, di non perdere prestigio presso gli alleati, i quali premono per un sempre maggiore impegno di tutti nel teatro, e di salvare ad ogni costo, all'interno, l'immagine retorica della missione "di pace", condizione indispensabile, specie con una maggioranza come quella del biennio Prodi, per non perdere il sostegno parlamentare alla missione.
La prudenza con la quale vengono velate le brutte notizie in arrivo dal fronte raggiunge vette sublimi: per anni, ad esempio, ad ogni annuncio di attacco subito dalle nostre truppe, si bada bene a non usare la parola "talebani", ma a dare la colpa di tutto a generici "elementi ostili"; l'esistenza di un avversario bene identificato fa infatti pensare ad una situazione di guerra in corso, mentre l'"elemento ostile" chiunque lo può incontrare anche passeggiando pacificamente in una qualsiasi città italiana. Soltanto recentissimamente, con il cambio di guida politica nel nostro Paese e l'avvento di un ministro della Difesa come Ignazio La Russa, si è cominciato a chiamare un po' di più le cose con il loro nome, ad ammettere con maggior franchezza la realtà della situazione, a lasciare un poco da parte certe forme che, ripeto, sanno troppo di tragica ipocrisia.
Siamo dunque in guerra o no, in Afghanistan? Da un punto di vista giuridico, sicuramente la risposta a tale quesito dev'essere negativa, ma è inutile negare che, laggiù, ci si trova a dover agire in un ambiente infestato da formazioni organizzate ed armate che si considerano perfettamente in guerra con noi, come con ogni altro appartenente alle forze militari internazionali, anche se noi ci ostiniamo a non ritenerci in guerra con loro. Diciamo che è una missione di pace nella quale le armi più idonee a fronteggiare le minacce esercitate non possono purtroppo essere soltanto un elemento quasi decorativo come in altri teatri, bensì debbono essere impiegate, senza eccessi e senza parsimonia, nel contesto dei compiti a noi assegnati nell'ambito dello sforzo internazionale, che tuttavia non dev'essere soltanto bellico, ma anche di "conquista dei cuori e delle menti" dei locali, di vero appoggio alla ricostruzione, di eventuale ricerca di un dialogo con coloro con i quali ciò fosse possibile.
Sarebbe assurdo perorare il ritiro proprio ora, solo perchè la missione si presenta più difficile di come l'avremmo desiderata.
La posta in gioco è troppo alta e il momento troppo decisivo: contribuire a riportare sicurezza e stabilità in un angolo del mondo dove non è remoto il rischio che persino le cinquanta testate nucleari pachistane possano cadere in mani terroriste è un atto di difesa così vitale che certo nessun articolo 11 di nessuna Costituzione può ritenere illegittimo.
Tommaso Pellegrino

6 commenti:

Anonimo ha detto...

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Ciao, ho inserito il link al tuo blog tra i blog consigliati da Libere Risonanze (http://www.libererisonanze.blogspot.com/).
Un cordiale saluto.

Anonimo ha detto...

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