Papa Francesco ha recentemente reso pubblica la "Laudato si", la prima enciclica del suo Pontificato recante unicamente la sua firma (quella precedente era infatti stata una sorta di lavoro "a quattro mani" con l'emerito Benedetto XVI) ed il tema scelto è stato, principalmente anche se non solo, quello dell'ecologia e della salvaguardia dell'ambiente, ovvero il terreno sul quale, come forse su nessun altro, si sono mescolate e sovrapposte tesi scientifiche più o meno attendibili e strumentalizzazioni politiche, al punto tale da dare luogo, non di rado, a quadri complessivi di sconcertante confusione. Qui di seguito ci sforzeremo di analizzare almeno i punti più salienti del documento, quelli andati maggiormente soggetti ad elogi o critiche, senza mai timore nè intenzione di venire meno al rispetto dovuto da ognuno, e dai cattolici in particolare, verso Colui che rimane sempre, fino a prova contraria (peraltro difficilissima da produrre) e con buona pace di taluni ambienti, Sommo Pontefice e Vicario di Cristo legittimo sia "materialmente" che "formalmente"; questo anche nel muovere gli appunti che si riterrà opportuno muovere a taluni passi di questo suo lavoro.
Si è comprensibilmente tanto criticata, in primo luogo, la preoccupazione che sembra attanagliare il Papa, ad esempio, per la sorte di "alghe, vermi, piccoli insetti e rettili", quando l'attualità che viviamo è travagliata da tragedie, materiali e spirituali, ben più rilevanti: dalle persecuzioni ed uccisioni di tanti cristiani ad opera di barbari fanatici alla crisi della Fede e alla diffusione del peccato anche nel nostro mondo opulento, con il serio rischio della rovina di tante anime.
Si è sottolineato che tanto ardore ecologista, tanto scendere nei particolari nel raccomandare persino minuti comportamenti pratici da provetti ambientalisti ("evitare l'uso di materiale plastico o di carta, ridurre il consumo di acqua, differenziare i rifiuti, [...], utilizzare il trasporto pubblico, [...], spegnere le luci inutili"), rischi di far sembrare l'enciclica più un manuale di buon comportamento civico che non un documento pontificio, e la Chiesa che l'ha emanata una Chiesa che ha dimenticato, o almeno ha relegato in secondo piano, la sua missione primaria, che è quella della salvezza delle anime (e "il bene soprannaturale di uno solo è superiore al bene naturale di tutto l'universo" afferma San Tommaso d'Aquino), a tutto vantaggio della promozione di stampo umanista di una "salvezza" ormai puramente terrena.
Particolarmente duro nelle sue obiezioni è stato il noto scrittore cattolico Antinio Socci, il quale, respingendo ogni paragonabilità delle bergogliane lodi a "frate verme" al francescano (di San Francesco d'Assisi) "Cantico delle Creature", evidenzia le intenzioni del Poverello di lodare, con tale sua opera, Dio e proclamare la bontà del Creato, in tempi in cui i Catari, riprendendo le antiche tesi gnostiche, consideravano appunto il Creato come un male. Non, dunque, una "performance" da ecologista, quella di Francesco d'Assisi - in un'epoca in cui, peraltro, non era neppure concepibile esserlo, essendo allora l'uomo a subire la natura e non viceversa - ma un brano poetico al centro del quale vi è la salvezza dell'anima e che si conclude mettendo in guardia dal morire in peccato mortale, meritando così l'Inferno.
Invece, sostiene Socci, "nel bergoglismo non si trovano nè il 'peccato originale', nè i peccati mortali, nè il Purgatorio, nè l'Inferno. Eppure la dottrina cattolica afferma che 'la salvezza delle anime è la suprema legge della Chiesa'. La sola cosa che conta". Quindi, lo scrittore passa a spiegare come già la Genesi conferisca all'uomo la regalità sull'Universo, mentre le moderne dottrine ecologiste, che il Papa sembrerebbe sposare nella "Laudato si", ma che sono sinora sempre state avversate dalla Chiesa, rovesciano questa gerarchia di valori mettendo l'uomo sullo stesso piano degli altri esseri viventi, quando va bene, o considerandolo addirittura, nei casi più estremi, un "cancro" per il pianeta. "Lo scopo finale delle altre creature non siamo noi" scrive Francesco al punto n. 83 del documento; la "Gaudium et spes" afferma invece che "tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all'uomo come suo centro e a suo vertice".
Ora, non crediamo certo che una non maniacale dedizione alla cura e al rispetto del pianeta affidatoci sia da sottovalutare o peggio condannare, anzi...Nessuno nega, ad esempio, che ciascuno di noi sia "sovrano" sulla propria automobile e non un semplice pezzo di essa, ma chi le farebbe mai mancare la diligente manutenzione, i tagliandi, l'attenzione allo stato delle gomme o i cambi d'olio al momento giusto? E' per questi motivi che non ci sentiamo, dopotutto, di condividere appieno i commenti troppo severi sui richiami in proposito del Pontefice. Il punto cruciale è però la necessità di distinguere tra un "ecologismo" non politicizzato nè ideologizzato, mirante alla semplice tutela dell'habitat naturale sulla base di criteri esclusivamente scientifici ed oggettivi, del quale siamo tutti fautori, da "scuole di pensiero" politicamente marchiate, dal sapore neopagano e decise a rimanere alla ribalta dell'attenzione pubblica e a conseguire i propri fini anche dando per scontate quelle che sono soltanto ipotesi dalla validità scientifica non ancora accertata, come quella della causa umana del riscaldamento globale; ed è difficile negare che, manifestando appunto, in taluni passi, eccessiva vicinanza a queste ultime, dando troppa importanza ai comportamenti materiali, anche perdendosi in banali minuzie, come abbiamo visto all'inizio, e dandone invece troppo poca alla dimensione teologica del problema (la prima "rovina dell'ambiente" fu quella dell'Eden dovuta al peccato originale; cambiamenti climatici ed altri fenomeni del genere andrebbero anche inquadrati nella signoria di Dio e nella sua eventuale volontà di castigare), l'enciclica sembri dare l'impressione di una Chiesa sempre più in via di mondanizzazione e di neopaganizzazione, nonchè abdicante alla propria missione spirituale primaria.
Per contro, non possiamo neppure ignorare le lodevoli prese di distanze del Pontefice da alcuni capisaldi di correnti di pensiero strettamente collegate a queste forme di ecologismo ideologico ed areligioso, palesemente in contrasto con l'insegnamento tradizionale della Chiesa, come, ad esempio, la tesi sulla necessità di drastiche politiche di controllo delle nascite in quanto un'eccessiva popolazione sarebbe tra le cause principali della questione ambientale (e qui si ritorna al concetto dell'uomo "cancro" anzichè re del pianeta), in particolare sottolineando l'incompatibilità di una sana lotta a vantaggio dell'ambiente con la giustificazione dell'aborto, o quella a sostegno degli esperimenti indiscriminati con embrioni umani vivi.
Ammirevole è poi la denuncia di Francesco dell'odierna presunzione di onnipotenza della tecnica, la cosiddetta tecnocrazia, predominante anche sulla politica e sull'economia, le quali è invece necessario che "si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana".
Qualche perplessità in più, infine, possono sollevare le conclusioni dell'enciclica sui temi finanziari ed economici, che tocca accanto a quelli più strettamente ecologici.
Sostanzialmente bene fa il Papa a denunciare la perniciosità dell'affermarsi di un eccessivo individualismo e consumismo nella società moderna, di una sopravvalutazione del mercato da "mezzo" a "fine", capace di risolvere tutti i problemi di fame, miseria e sociali semplicemente con la propria "crescita", dei pasticci creati da una finanza non sufficientemente regolamentata ecc.
A nostro parere, possono però essere fonte di qualche dubbio sulla loro coerenza con il Magistero da sempre portato avanti dalla Chiesa in materia le affermazioni del Pontefice riguardo al diritto di proprietà privata. D'accordo che questo è sempre stato considerato dalla Tradizione cattolica come strettamente legato ad una sua certa funzione sociale, ma se ne è pure sempre affermata con forza l'inviolabilità contro qualsiasi pretesa di spoliazione arbitraria, fosse anche per scopi di presunta giustizia sociale, mentre i toni e le parole usati da Francesco, forse eccessivamente enfatici su una proprietà definita "non intoccabile", sembrerebbero invece, anzichè suonare quale un giusto invito per gli abbienti al retto impiego non egoistico delle loro sostanze, secondo quanto in ogni tempo predicato dalla Chiesa, quasi ventilare che possano essere in qualche caso ammissibili azioni di esproprio forzato come avvenuto in certe epoche e zone del mondo che non è qui il caso di ricordare nel dettaglio, i cui risultati storici disastrosi tutti conosciamo, con tanti saluti all'insegnamento controrivoluzionario e paladino della difesa dell'ordine naturale delle cose e della pace sociale portato avanti in duemila anni di Cristianesimo.
Un'enciclica, la "Laudato si", dunque carica di luci ed ombre, perfettamente nello stile di un Santo Padre che, sin dalla sua ascesa al Soglio, ha alternato momenti di grande coerenza dottrinale ed equità ad altri capaci di sollevare enormi punti interrogativi.
Tommaso Pellegrino
sabato 4 luglio 2015
venerdì 29 maggio 2015
CONTRE NOUS DE LA TYRANNIE L'ETANDARD SANGLANT EST LEVE'
Continua, tra alti e bassi (ahimè, per ora verrebbe quasi da dire più alti per gli uomini del Califfato e bassi per la coalizione che li combatte che non viceversa), la terribile lotta in Medio Oriente tra l'esercito di tagliagole del sedicente Stato Islamico (ISIS) e quanti, tra combattenti locali rischianti effettivamente la pelle sul terreno e loro alleati internazionali restii ad impegnarsi oltre l'asettica pratica dei bombardamenti aerei selettivi di dubbia efficacia militare (malgrado il raggiungimento di qualche buon risultato, come l'uccisione o il ferimento di importanti leaders nemici), gli contendono il controllo delle zone inevitabilmente destinate alle pene dell'inferno, qualora cadute nelle mani degli invasati del Califfo.
Ora, sembra che le priorità nell'immediato siano la riconquista di Ramadi, in Iraq, e quella di Palmyra, in Siria, quest'ultima al centro anche di forti preoccupazioni internazionali per la sorte che potrebbero subire le preziose rovine della città antica, data la nota sensibilità jihadista verso simili meraviglie archeologiche patrimonio dell'Umanità.
Una nostra personalità politica di primo piano ha osservato, in questi giorni, che per battere l'ISIS non può bastare la sola forza militare, ma è necessario innanzi tutto che l'Iraq si comporti come un Paese unito e democratico contro quella minaccia, il che, però, è più o meno come dire che è necessario che Babbo Natale esista: non si può infatti obiettivamente ignorare quale unità tra tutte le etnie e religioni presenti e quale democrazia regnino nello Stato irakeno costruito sotto l'egida delle potenze che avevano abbattuto il dispotico regime di Saddam Hussein, e quanto si presenti di fatto impossibile, al momento, apportare significative correzioni a tale situazione.
L'ISIS ha del resto messo a segno i suoi colpi e i suoi successi appunto laddove maggiormente lo Stato ufficiale si presentava debole, o fortemente in crisi, o addirittura quasi inesistente: nell'Iraq uscito dalla guerra e dall'occupazione americane, con strutture istituzionali ancora fragili, forti rivalità etnico-religiose, forze armate non ancora al top e chissà in quale misura motivate; nella Siria già da tempo tormentata da una tremenda guerra civile contro una dittatura pluridecennale; infine nella Libia del dopo "primavera araba", caduta praticamente nel caos in seguito alla dissoluzione del regime del colonnello-beduino Gheddafi.
La stessa riconquista di Ramadi da parte dlle forze irakene, ad esempio, potrebbe essere resa più difficile dal fatto che i suoi abitanti sono musulmani di fede sunnita, e potrebbero, anche non condividendo l'estremismo dell'ISIS, opporsi ai militari regolari di Baghdad inviati a liberarli per il solo essere questi in massima parte sciiti, e quindi percepiti come una "minaccia", per la loro esistenza, addirittura ancora maggiore di quella rappresentata dai correligionari tagliagole.
Questo per quanto riguarda le forze direttamente impegnate sul terreno, ma chiarezza nei rapporti reciproci, compattezza ed unità d'intenti non sono maggiori neppure tra gli attori internazionali più significativamente coinvolti negli sforzi per ovviare all'emergenza: come fa notare anche il professore della Costal Carolina University Joseph Fitsnakis, specialista in intelligence ed antiterrorismo, gli Stati Uniti, che tra l'altro non intendono inviare di nuovo soldati di terra in Medio Oriente, dopo aver fatto tanto per sganciarsi dall'Iraq, non sono molto in sintonia con il principale nemico dell'ISIS, che è l'Iran, il quale è guardato con diffidenza anche dall'Arabia Saudita per l'eccessivo peso che esso verrebbe ad avere nella regione in caso di vittoria sul Califfato, ed anche la Turchia vorrebbe vedere l'ISIS sconfitto, ma al tempo stesso ce l'ha pure con i curdi, che fronteggiano i jihadisti appoggiati dall'Iran.
Insomma, un bel pasticcio dal quale non si riesce ancora ad intravedere una possibilità di uscita definitiva, mentre sembra certo che tanto sangue innocente sia ancora destinato ad essere versato nelle terre che gli ossessi del Califfo continuano ad ingoiarsi, avvantaggiati dai dubbi e dalle rivalità interne al fronte dei loro avversari.
"Contre nous de la tyrannie l'étandard sanglant est levé", si cantava sulle note della Marsigliese, lo stendardo sanguinante della tirannia è alzato contro di noi.
Ed era da molto tempo che una tirannia così sanguinaria ed internazionalmente pericolosa come quella che si ammanta di quelle bandieracce nere non si vedeva fiorire sotto il sole.
Speriamo che ci se ne renda conto prima che sia troppo tardi.
Tommaso Pellegrino
Ora, sembra che le priorità nell'immediato siano la riconquista di Ramadi, in Iraq, e quella di Palmyra, in Siria, quest'ultima al centro anche di forti preoccupazioni internazionali per la sorte che potrebbero subire le preziose rovine della città antica, data la nota sensibilità jihadista verso simili meraviglie archeologiche patrimonio dell'Umanità.
Una nostra personalità politica di primo piano ha osservato, in questi giorni, che per battere l'ISIS non può bastare la sola forza militare, ma è necessario innanzi tutto che l'Iraq si comporti come un Paese unito e democratico contro quella minaccia, il che, però, è più o meno come dire che è necessario che Babbo Natale esista: non si può infatti obiettivamente ignorare quale unità tra tutte le etnie e religioni presenti e quale democrazia regnino nello Stato irakeno costruito sotto l'egida delle potenze che avevano abbattuto il dispotico regime di Saddam Hussein, e quanto si presenti di fatto impossibile, al momento, apportare significative correzioni a tale situazione.
L'ISIS ha del resto messo a segno i suoi colpi e i suoi successi appunto laddove maggiormente lo Stato ufficiale si presentava debole, o fortemente in crisi, o addirittura quasi inesistente: nell'Iraq uscito dalla guerra e dall'occupazione americane, con strutture istituzionali ancora fragili, forti rivalità etnico-religiose, forze armate non ancora al top e chissà in quale misura motivate; nella Siria già da tempo tormentata da una tremenda guerra civile contro una dittatura pluridecennale; infine nella Libia del dopo "primavera araba", caduta praticamente nel caos in seguito alla dissoluzione del regime del colonnello-beduino Gheddafi.
La stessa riconquista di Ramadi da parte dlle forze irakene, ad esempio, potrebbe essere resa più difficile dal fatto che i suoi abitanti sono musulmani di fede sunnita, e potrebbero, anche non condividendo l'estremismo dell'ISIS, opporsi ai militari regolari di Baghdad inviati a liberarli per il solo essere questi in massima parte sciiti, e quindi percepiti come una "minaccia", per la loro esistenza, addirittura ancora maggiore di quella rappresentata dai correligionari tagliagole.
Questo per quanto riguarda le forze direttamente impegnate sul terreno, ma chiarezza nei rapporti reciproci, compattezza ed unità d'intenti non sono maggiori neppure tra gli attori internazionali più significativamente coinvolti negli sforzi per ovviare all'emergenza: come fa notare anche il professore della Costal Carolina University Joseph Fitsnakis, specialista in intelligence ed antiterrorismo, gli Stati Uniti, che tra l'altro non intendono inviare di nuovo soldati di terra in Medio Oriente, dopo aver fatto tanto per sganciarsi dall'Iraq, non sono molto in sintonia con il principale nemico dell'ISIS, che è l'Iran, il quale è guardato con diffidenza anche dall'Arabia Saudita per l'eccessivo peso che esso verrebbe ad avere nella regione in caso di vittoria sul Califfato, ed anche la Turchia vorrebbe vedere l'ISIS sconfitto, ma al tempo stesso ce l'ha pure con i curdi, che fronteggiano i jihadisti appoggiati dall'Iran.
Insomma, un bel pasticcio dal quale non si riesce ancora ad intravedere una possibilità di uscita definitiva, mentre sembra certo che tanto sangue innocente sia ancora destinato ad essere versato nelle terre che gli ossessi del Califfo continuano ad ingoiarsi, avvantaggiati dai dubbi e dalle rivalità interne al fronte dei loro avversari.
"Contre nous de la tyrannie l'étandard sanglant est levé", si cantava sulle note della Marsigliese, lo stendardo sanguinante della tirannia è alzato contro di noi.
Ed era da molto tempo che una tirannia così sanguinaria ed internazionalmente pericolosa come quella che si ammanta di quelle bandieracce nere non si vedeva fiorire sotto il sole.
Speriamo che ci se ne renda conto prima che sia troppo tardi.
Tommaso Pellegrino
lunedì 12 gennaio 2015
PARIGI BRUCIA?
Parigi brucia? La domanda, che coincide con il titolo di un famoso vecchio film sugli ultimi giorni di occupazione nazista della capitale francese prima della liberazione dell'agosto '44, allorchè Hitler dispone che la città sia interamente incendiata, e che è appunto quella che il dittatore tedesco stesso rivolge al governatore militare germanico Von Choltitz per accertarsi che tale ordine sia stato eseguito (per fortuna non lo è stato), è venuta in mente spontanea in questi giorni di sangue sotto la Tour Eiffel, che hanno visto, nell'ordine, una strage di vignettisti nella sede di un giornale satirico, un'altra sparatoria per strada, con una poliziotta rimasta uccisa, l'asseragliamento degli assassini dei vignettisti in una tipografia poco fuori Parigi, con conseguenti lungo assedio ed uccisione finale degli stessi da parte delle "teste di cuoio" francesi e, per finire, altro barricamento, con presa di ostaggi, di un terrorista in un supermercato ebraico della capitale ed ennesimo epilogo della vicenda nel sangue (quello del terrorista).
La strage di dodici vittime, tra vignettisti ed altre persone presenti, nella sede del giornale "satirico" "Charlie Hebdo" il 7 gennaio, ad opera di individui bene armati ed apparentemente bene addestrati, al grido ormai tristemente familiare di "Allah u akbar", ha lasciato esterefatta l'opinione pubblica come una sorta di nuovo "11 settembre" europeo. C'è stato chi ha detto che i redattori del settimanale satirico se la sarebbero addirittura "cercata", in quanto il bliz terrorista giungeva in risposta ad alcune vignette estremamente irriguardose (anzi, diciamolo, blasfeme) nei confronti dell'Islam e del suo "Profeta" da essi pubblicate.
In effetti, è impossibile non riconoscere, con tutto il rispetto per dei morti che mai comunque avrebbero meritato un simile destino, che "Charlie Hebdo" era, ed è, un giornalaccio non di critica civile, nè di satira intelligente, conscio di quali siano i limiti, se non altro di buon gusto, da possibilmente non superare, ma di sparo a zero alla cieca contro tutto e tutti, non di rado con una volgarità ben difficilmente egualiabile ed un'offensività blasfema contro tutte le religioni anch'essa con poca concorrenza sulla piazza, nella più totale ignoranza anche dell'elementarissima regola della "tua libertà che finisce dove inizia quella degli altri".
Che la libertà di espressione (intendiamoci, essenziale ed irrinunciabile pilastro di ogni vera democrazia) sia proprio assoluta, che cioè non trovi limiti neppure nel diritto a non essere offesi nelle proprie sensibilità più sacre, religiose, patriottiche o morali, mi pare evidente che non sia ammissibile.
Di offendere gravemente il sentimento religioso altrui di qualunque fede, in particolare, nessuno può poi rivendicare il diritto: se esso è autentico (così è, almeno, nel caso dei cattolici, ma penso anche delle altre fedi), non dimentichiamoci che riguarda la devozione verso un Essere Superiore che il credente pone addirittura al primo posto nella propria vita, prima degi stessi propri cari e di qualsiasi altro soggetto terreno. Giusto sarebbe quindi che la bestemmia fosse reato (un tempo, in Italia, lo era, ora non so se lo sia ancora, ma, qualora più non lo fosse, si trattrebbe di un grave passo indietro della civiltà e non certo in avanti, come qualche "libertario" dei miei stivali probabilmente sosterrebbe), giuste ogni protesta e denuncia cattoliche (per quel che possano servire) per le vignette vergognosamente blasfeme contro quanto a noi vi è di più sacro, e giustissima, ed appoggiabile tranquillamente da parte di ogni persona di buon senso anche non seguace di quel credo, sarebbe stata qualsiasi iniziativa o dimostrazione legale e pacifica dei fedeli musulmani contro "vignette" anti-islamiche che hanno decisamente passato ogni limite della scusabilità e della decenza, come quella che dichiarava essere il Corano, senza mezzi termini, fatto di m...
Sbagliato, sbagliatissimo, anzi disumano ed orrendo, è stato invece reagire a simili offese con lo sterminio fisico dei responsabili, il cui innegabile "coraggio" per essersela presa, sul loro fogliaccio, non soltanto con i sempre imbelli e menefreghisti cattolici, il che non comporta notoriamente alcun rischio, ma anche con i seguaci di Maometto, i quali, si sa, un po' di suscettibilità in più ce l'hanno, ha fatto di essi i martiri ideali in nome della libertà di satira (beninteso essenziale, quando intelligente e di buon gusto), dando un completo colpo di spugna sui loro passati comportamenti non sempre proprio nobili, di fronte allo choc di una simile tragedia, che non può in ogni caso trovare giustificazioni e che getta nell'ansia e nella paura, per la piega che potrebbero prendere i fatti, un'intera Nazione ed il mondo intero.
Parigi ha bruciato per un paio di giorni; il pericolo che possa farlo ancora, o che nuovi "incendi" possano interessare altri luoghi , dentro o fuori la Francia, è concreto. Analizzare cause di ciò e possibili ricette per evitare altre tragedie sarebbe troppo lungo e soprattutto troppo arduo. Importante sarebbe che la si smettesse con le solite trite e ritrite retoriche e luoghi comuni su integrazioni, Islam "moderato", Islam "religione di pace" contrapposta a terroristi che non avrebbero nulla ache fare con essa. E si prendessero invece seriamente in considerazione elementi come lo stato in cui hanno finito per ridursi il nostro senso di appartenenza europea ed occidentale ed il nostro orgoglio per le radici cristiane, come i disagi dei nostri giovani di fronte ad una società forse non più in grado di dar loro ciò di cui sentono veramente il bisogno, come possibili strategie autenticamente efficaci per porre fine all'immane dramma che si sta consumando in Medio Oriente senza che si profili ancora all'orizzonte una qualche soluzione
Sarebbe già un bel passo in avanti, o almeno no indietro.
Tommaso Pellegrino
La strage di dodici vittime, tra vignettisti ed altre persone presenti, nella sede del giornale "satirico" "Charlie Hebdo" il 7 gennaio, ad opera di individui bene armati ed apparentemente bene addestrati, al grido ormai tristemente familiare di "Allah u akbar", ha lasciato esterefatta l'opinione pubblica come una sorta di nuovo "11 settembre" europeo. C'è stato chi ha detto che i redattori del settimanale satirico se la sarebbero addirittura "cercata", in quanto il bliz terrorista giungeva in risposta ad alcune vignette estremamente irriguardose (anzi, diciamolo, blasfeme) nei confronti dell'Islam e del suo "Profeta" da essi pubblicate.
In effetti, è impossibile non riconoscere, con tutto il rispetto per dei morti che mai comunque avrebbero meritato un simile destino, che "Charlie Hebdo" era, ed è, un giornalaccio non di critica civile, nè di satira intelligente, conscio di quali siano i limiti, se non altro di buon gusto, da possibilmente non superare, ma di sparo a zero alla cieca contro tutto e tutti, non di rado con una volgarità ben difficilmente egualiabile ed un'offensività blasfema contro tutte le religioni anch'essa con poca concorrenza sulla piazza, nella più totale ignoranza anche dell'elementarissima regola della "tua libertà che finisce dove inizia quella degli altri".
Che la libertà di espressione (intendiamoci, essenziale ed irrinunciabile pilastro di ogni vera democrazia) sia proprio assoluta, che cioè non trovi limiti neppure nel diritto a non essere offesi nelle proprie sensibilità più sacre, religiose, patriottiche o morali, mi pare evidente che non sia ammissibile.
Di offendere gravemente il sentimento religioso altrui di qualunque fede, in particolare, nessuno può poi rivendicare il diritto: se esso è autentico (così è, almeno, nel caso dei cattolici, ma penso anche delle altre fedi), non dimentichiamoci che riguarda la devozione verso un Essere Superiore che il credente pone addirittura al primo posto nella propria vita, prima degi stessi propri cari e di qualsiasi altro soggetto terreno. Giusto sarebbe quindi che la bestemmia fosse reato (un tempo, in Italia, lo era, ora non so se lo sia ancora, ma, qualora più non lo fosse, si trattrebbe di un grave passo indietro della civiltà e non certo in avanti, come qualche "libertario" dei miei stivali probabilmente sosterrebbe), giuste ogni protesta e denuncia cattoliche (per quel che possano servire) per le vignette vergognosamente blasfeme contro quanto a noi vi è di più sacro, e giustissima, ed appoggiabile tranquillamente da parte di ogni persona di buon senso anche non seguace di quel credo, sarebbe stata qualsiasi iniziativa o dimostrazione legale e pacifica dei fedeli musulmani contro "vignette" anti-islamiche che hanno decisamente passato ogni limite della scusabilità e della decenza, come quella che dichiarava essere il Corano, senza mezzi termini, fatto di m...
Sbagliato, sbagliatissimo, anzi disumano ed orrendo, è stato invece reagire a simili offese con lo sterminio fisico dei responsabili, il cui innegabile "coraggio" per essersela presa, sul loro fogliaccio, non soltanto con i sempre imbelli e menefreghisti cattolici, il che non comporta notoriamente alcun rischio, ma anche con i seguaci di Maometto, i quali, si sa, un po' di suscettibilità in più ce l'hanno, ha fatto di essi i martiri ideali in nome della libertà di satira (beninteso essenziale, quando intelligente e di buon gusto), dando un completo colpo di spugna sui loro passati comportamenti non sempre proprio nobili, di fronte allo choc di una simile tragedia, che non può in ogni caso trovare giustificazioni e che getta nell'ansia e nella paura, per la piega che potrebbero prendere i fatti, un'intera Nazione ed il mondo intero.
Parigi ha bruciato per un paio di giorni; il pericolo che possa farlo ancora, o che nuovi "incendi" possano interessare altri luoghi , dentro o fuori la Francia, è concreto. Analizzare cause di ciò e possibili ricette per evitare altre tragedie sarebbe troppo lungo e soprattutto troppo arduo. Importante sarebbe che la si smettesse con le solite trite e ritrite retoriche e luoghi comuni su integrazioni, Islam "moderato", Islam "religione di pace" contrapposta a terroristi che non avrebbero nulla ache fare con essa. E si prendessero invece seriamente in considerazione elementi come lo stato in cui hanno finito per ridursi il nostro senso di appartenenza europea ed occidentale ed il nostro orgoglio per le radici cristiane, come i disagi dei nostri giovani di fronte ad una società forse non più in grado di dar loro ciò di cui sentono veramente il bisogno, come possibili strategie autenticamente efficaci per porre fine all'immane dramma che si sta consumando in Medio Oriente senza che si profili ancora all'orizzonte una qualche soluzione
Sarebbe già un bel passo in avanti, o almeno no indietro.
Tommaso Pellegrino
giovedì 20 novembre 2014
TERRORISTI "DELLA PORTA ACCANTO": PERCHE' UNA SMILE SCELTA?
Sono migliaia, ormai è accertato, gli uomini provenienti da paesi lontani dal teatro degli scontri arruolatisi nello spietato esercito dell'ISIS, il sedicente "Stato islamico" che combatte per invadere ampi territori di Iraq e Siria, terrorizzando ed uccidendo chi incontra sulla propria strada, decapitando prigionieri ed imponendo conversioni all'Islam (beninteso il "loro" Islam) o perpetrando altri tipi di soprusi.
Sono migliaia, e la stragrande maggioranza di essi è partita dall'Europa o dal Nord America o da aree comunque appartenenti al "primo mondo" ricco, sviluppato e, in teoria, "cristiano". Si tratta per lo più di immigrati di seconda o terza generazione da paesi islamici, o addirittura di occidentali "doc" passati armi e bagagli con i peggiori nemici della loro stessa gente quasi inspiegabilmente, come questi due bei tomi di Nasser Muthana e Maxime Hauchard, rispettivamente un immigrato di seconda generazione nel Galles ed un autentico francese nato cattolico e poi convertitosi al credo di Allah nella versione ultraradicale praticata dall'ISIS; insomma: due classici giovani "della porta accanto" che diresti perfettamente integrati in questo mondo dell'opulenza (crisi o non crisi non saranno mai neppure lontanamente paragonabili le condizioni di vita in queste regioni della Terra con quelle di chi ne è fuori), di ogni sorta di diritto garantito, di condizioni di "pace" date quasi per scontate.
Invece dobbiamo seriamente interrogarci su quali responsabilità possa avere proprio questa nostra bella "società" nello scattare di una simile molla nelle teste di giovani che ci sembrerebbe non potessero desiderare di meglio dalla vita e dall'ambiente in cui sono cresciuti.
Naturalmente non sono mai giustificabili scelte criminali, nè si può negare che i paesi del cosiddetto "nord del mondo" rimangano comunque di gran lunga oggettivamente i migliori in cui nascere e vivere sotto ogni punto di vista, o che il benessere derivato dal progresso tecnologico e dalle possibilità di scelta sul mercato, così come le libertà individuali e i diritti civili garantiti dai sistemi liberali, siano beni di un valore inestimabile, checchè possano dirne i sognatori di utopistiche "decrescite" o di romantici ritorni a circostanze e stili di vita propri di un passato non più riproponibile.
Tuttavia non bisogna neppure sottovalutare il rovescio di questa apparentemente irreprensibile medaglia: innanzitutto il materialismo, cosciente o meno, cui ci ha portato l'avere ormai superato, come società, ogni problema per il procacciamento di quanto primariamente necessario alla vita e quindi una continua tensione mirante solo alla ricerca del sempre più superfluo; la generale perdita del senso di appartenenza ad una grande civiltà, della conoscenza delle sue radici e del culto delle sue tradizioni, per appiattirsi su mode mentecatte fatte apposta per chi è disposto a rinunciare a far funzionare autonomamente ciò che gli riempie la scatola cranica, distinguendosi da una massa amorfa fatta solo per essere di fatto sottomessa e manovrata senza che essa stessa neppure se ne accorga. E poi la mancanza di scopi autentici e vitali per cui lottare, che ha portato noi popoli gonfi di benessere a soddisfare il bisogno fisiologico umano di combattere comunque sempre per qualcosa lanciandoci in "battaglie" deficienti come l'animalismo o l'ambientalismo esasperati e fanatici, mentre veri valori tradizionali sono andati persi di vista alla grande, nel rilassamento dei costumi generale e nel rammollimento in cui è inesorabilmente precipitata l'attuale società occidentale: il senso civico, il senso dell'autorità, della famiglia, della Patria, Patria che riassume poi il patrimonio comune di tutti noi, le nostre istituzioni e la nostra stessa libertà, circa i quali dobbiamo essere consci che sono sempre in potenziale pericolo e che vanno difesi con qualunque mezzo proporzionato alla minaccia; e invece tendiamo a credere che la "pace" sia un bene acquisito una volta per sempre e sembriamo ancora gli eredi di quei poveri di spirito (non in senso evangelico, e quindi non "beati") che, trenta e passa anni fa, starnazzavano "meglio rossi che morti", ovvero: meglio perdere la libertà e la dignità sotto i colpi di un invasore (all'epoca i "rossi", cioè i comunisti) piuttosto che difenderle con le unghie e con i denti, se occorre, in una giusta guerra di difesa (che, ovvio, qualche "morto" sul terreno mica può evitare di lasciarlo), come sarebbe nel più naturale e genuino ordine delle cose, tra uomini e popoli degni di tali nomi.
A tutto questo decadimento, duole ammetterlo, ha contribuito non poco anche la stessa Chiesa cattolica, un tempo portabandiera fiero e sicuro dei valori religiosi, filosofici e morali che hanno fatto grande la civiltà dell'Occidente, ed oggi non più sempre altrettanto ferma nel sostenerli con uguale coerenza, assumendo troppe volte atteggiamenti non netti, fatti per piacere un po' a tutti, assecondanti quella rinuncia alla difesa virile della propria identità e dei propri eterni valori pur di non guastare un comodo e codardo quieto vivere, puramente materiale, con tutti, che ci illudiamo possa essere la vera condizione ottimale di vita, poichè, come scrive Roberto de Mattei, "chi professa l'ecumenismo e il pacifismo a oltranza dimentica che esistono mali più profondi di quelli fisici e materiali, e confonde le conseguenze rovinose della guerra sul piano fisico con le sue cause, che sono morali e risalgono alla violazione dell'ordine, in una parola a quel peccato che solo può essere sconfitto dalla Croce".
A questo punto è doveroso chiedersi che può fare, e a quali pericoli può andare seriamente incontro, una persona, specie se giovane, che sentisse anche solo confusamente il disagio di appartenere ad una società in deficit di spiritualità, senza più punti di riferimento certi nè l'energia di operare fermamente per qualcosa in cui si crede. Semplice: rischia di approdare, per sfuggire ad un eccesso, all'eccesso opposto, se non è possibile una giusta ed equilibrata scelta di mezzo, vale a dire di lasciarsi alle spalle un contesto che non dà più alcuno spazio ad idealismo ed affermazione di un'identità per un altro che invece ne dà troppo.
E' quello che hanno fatto questi figli che la nostra società ha cresciuto credendo che omogeneizzati, videogiochi e musica rock fossero tutto ciò di cui chi nasce nella parte più privilegiata del pianeta abbia bisogno; invece loro, ciò di cui sentivano davvero la mancanza, sono andati a cercarselo nel più tragico e distruttivo dei modi.
A noi il compito di riflettere su quali siano le nostre responsabilità collettive per il punto a cui si è giunti, e su cosa si possa fare per porvi almeno parzialmente rimedio, qualora ancora si sia ancora in tempo.
Tommaso Pellegrino
Sono migliaia, e la stragrande maggioranza di essi è partita dall'Europa o dal Nord America o da aree comunque appartenenti al "primo mondo" ricco, sviluppato e, in teoria, "cristiano". Si tratta per lo più di immigrati di seconda o terza generazione da paesi islamici, o addirittura di occidentali "doc" passati armi e bagagli con i peggiori nemici della loro stessa gente quasi inspiegabilmente, come questi due bei tomi di Nasser Muthana e Maxime Hauchard, rispettivamente un immigrato di seconda generazione nel Galles ed un autentico francese nato cattolico e poi convertitosi al credo di Allah nella versione ultraradicale praticata dall'ISIS; insomma: due classici giovani "della porta accanto" che diresti perfettamente integrati in questo mondo dell'opulenza (crisi o non crisi non saranno mai neppure lontanamente paragonabili le condizioni di vita in queste regioni della Terra con quelle di chi ne è fuori), di ogni sorta di diritto garantito, di condizioni di "pace" date quasi per scontate.
Invece dobbiamo seriamente interrogarci su quali responsabilità possa avere proprio questa nostra bella "società" nello scattare di una simile molla nelle teste di giovani che ci sembrerebbe non potessero desiderare di meglio dalla vita e dall'ambiente in cui sono cresciuti.
Naturalmente non sono mai giustificabili scelte criminali, nè si può negare che i paesi del cosiddetto "nord del mondo" rimangano comunque di gran lunga oggettivamente i migliori in cui nascere e vivere sotto ogni punto di vista, o che il benessere derivato dal progresso tecnologico e dalle possibilità di scelta sul mercato, così come le libertà individuali e i diritti civili garantiti dai sistemi liberali, siano beni di un valore inestimabile, checchè possano dirne i sognatori di utopistiche "decrescite" o di romantici ritorni a circostanze e stili di vita propri di un passato non più riproponibile.
Tuttavia non bisogna neppure sottovalutare il rovescio di questa apparentemente irreprensibile medaglia: innanzitutto il materialismo, cosciente o meno, cui ci ha portato l'avere ormai superato, come società, ogni problema per il procacciamento di quanto primariamente necessario alla vita e quindi una continua tensione mirante solo alla ricerca del sempre più superfluo; la generale perdita del senso di appartenenza ad una grande civiltà, della conoscenza delle sue radici e del culto delle sue tradizioni, per appiattirsi su mode mentecatte fatte apposta per chi è disposto a rinunciare a far funzionare autonomamente ciò che gli riempie la scatola cranica, distinguendosi da una massa amorfa fatta solo per essere di fatto sottomessa e manovrata senza che essa stessa neppure se ne accorga. E poi la mancanza di scopi autentici e vitali per cui lottare, che ha portato noi popoli gonfi di benessere a soddisfare il bisogno fisiologico umano di combattere comunque sempre per qualcosa lanciandoci in "battaglie" deficienti come l'animalismo o l'ambientalismo esasperati e fanatici, mentre veri valori tradizionali sono andati persi di vista alla grande, nel rilassamento dei costumi generale e nel rammollimento in cui è inesorabilmente precipitata l'attuale società occidentale: il senso civico, il senso dell'autorità, della famiglia, della Patria, Patria che riassume poi il patrimonio comune di tutti noi, le nostre istituzioni e la nostra stessa libertà, circa i quali dobbiamo essere consci che sono sempre in potenziale pericolo e che vanno difesi con qualunque mezzo proporzionato alla minaccia; e invece tendiamo a credere che la "pace" sia un bene acquisito una volta per sempre e sembriamo ancora gli eredi di quei poveri di spirito (non in senso evangelico, e quindi non "beati") che, trenta e passa anni fa, starnazzavano "meglio rossi che morti", ovvero: meglio perdere la libertà e la dignità sotto i colpi di un invasore (all'epoca i "rossi", cioè i comunisti) piuttosto che difenderle con le unghie e con i denti, se occorre, in una giusta guerra di difesa (che, ovvio, qualche "morto" sul terreno mica può evitare di lasciarlo), come sarebbe nel più naturale e genuino ordine delle cose, tra uomini e popoli degni di tali nomi.
A tutto questo decadimento, duole ammetterlo, ha contribuito non poco anche la stessa Chiesa cattolica, un tempo portabandiera fiero e sicuro dei valori religiosi, filosofici e morali che hanno fatto grande la civiltà dell'Occidente, ed oggi non più sempre altrettanto ferma nel sostenerli con uguale coerenza, assumendo troppe volte atteggiamenti non netti, fatti per piacere un po' a tutti, assecondanti quella rinuncia alla difesa virile della propria identità e dei propri eterni valori pur di non guastare un comodo e codardo quieto vivere, puramente materiale, con tutti, che ci illudiamo possa essere la vera condizione ottimale di vita, poichè, come scrive Roberto de Mattei, "chi professa l'ecumenismo e il pacifismo a oltranza dimentica che esistono mali più profondi di quelli fisici e materiali, e confonde le conseguenze rovinose della guerra sul piano fisico con le sue cause, che sono morali e risalgono alla violazione dell'ordine, in una parola a quel peccato che solo può essere sconfitto dalla Croce".
A questo punto è doveroso chiedersi che può fare, e a quali pericoli può andare seriamente incontro, una persona, specie se giovane, che sentisse anche solo confusamente il disagio di appartenere ad una società in deficit di spiritualità, senza più punti di riferimento certi nè l'energia di operare fermamente per qualcosa in cui si crede. Semplice: rischia di approdare, per sfuggire ad un eccesso, all'eccesso opposto, se non è possibile una giusta ed equilibrata scelta di mezzo, vale a dire di lasciarsi alle spalle un contesto che non dà più alcuno spazio ad idealismo ed affermazione di un'identità per un altro che invece ne dà troppo.
E' quello che hanno fatto questi figli che la nostra società ha cresciuto credendo che omogeneizzati, videogiochi e musica rock fossero tutto ciò di cui chi nasce nella parte più privilegiata del pianeta abbia bisogno; invece loro, ciò di cui sentivano davvero la mancanza, sono andati a cercarselo nel più tragico e distruttivo dei modi.
A noi il compito di riflettere su quali siano le nostre responsabilità collettive per il punto a cui si è giunti, e su cosa si possa fare per porvi almeno parzialmente rimedio, qualora ancora si sia ancora in tempo.
Tommaso Pellegrino
venerdì 29 agosto 2014
CATTOLICESIMO E GUERRA
Sono ancora i fatti tragici di cui ci giunge notizia, in questi giorni, dal Medio Oriente e soprattutto da Siria ed Iraq, fatti che presentano aspetti inediti, malgrado il prolificare di ogni sorta di conflitti, soprusi e violenze, da quelle parti, sia purtroppo una costante ormai da moltissimi anni, per via del tipo di minaccia che si è venuto a concretizzare, della sconvolgente brutalità delle azioni omicide e di pulizia etnica messe in atto e dal fatto che siano, per la prima volta da tempo, intere comunità cristiane a vedere a rischio la propria stessa esistenza fisica, a spingerci a qualche riflessione e precisazione su quali reazioni siano effettivamente da considerarsi lecite, ed anzi doverose, secondo l'autentica Dottrina cattolica tramandatasi nei secoli e non contestabile da nessuno che voglia mantenersi rigorosamente fedele agli insegnamenti della Chiesa, quali misure di difesa estreme in situazioni di pericolo eccezionali, nelle quali belle parole e preghiere assolutamente non possano più bastare.
Il Cristianesimo nasce indubbiamente quale portatore di un rivoluzionario messaggio di perdono delle offese subite, di amore e di pace, in un'epoca in cui guerre di conquista, ribellioni violente e leggi del taglione, peraltro sanzionate dalle stesse religioni preesistenti, sono allegramente all'ordine del giorno. L'insegnamento del Cristo è invece di amare chi ci odia e di porgere l'altra guancia, il che, sebbene, sia chiaro, non voglia per nulla dire trasformarsi in imbelli rinunciatari all'affermazione della giustizia terrena e alla legittima difesa, costituisce pur sempre un fatto scioccante senza significativi precedenti e destinato a non essere molto ricalcato neppure dalle altre fedi che vedranno la luce in seguito, in particolare proprio da quell'Islam al centro della tragedia che si sta oggigiorno consumando: è appunto il libro sacro dei musulmani, il Corano, ad esempio, a prescrivere (IX,5): "Uccidete i politeisti, ovunque li troviate, (...), assediateli ed opponetevi ad essi, in tutte le loro imboscate".
E non si tratta soltanto di "teoria" o di espressioni metaforiche: già lo stesso fondatore di quella religione, Maometto (e non, quindi, qualche suo successore d'epoca posteriore, che potrebbe anche avere travisato un diverso messaggio originario), prima di morire conquista a mano armata fior di territori e dissemina la sua strada di cadaveri. Ricordiamo tutti lo sbottare del compianto don Gianni Baget Bozzo, in una trasmissione televisiva di qualche anno fa, contro il bellimbusto di turno che intendeva spacciare la solita favoletta dell'Islam "religione di pace": "Basta! Non possiamo mettere sullo stesso piano il Cristianesimo, che è nato con i martiri, con l'Islam, che è nato con la spada in mano!".
Fermi nei propri propositi, infatti, i cristiani muovono i loro primi passi all'interno dell'Impero Romano pagano: non rivestendo ancora nessuno di essi responsabilità politiche, possono permettersi di non porsi neppure il problema di eventuali guerre con altri popoli, offensive o difensive che siano, le quali rimangono, ovviamente, affari dell'Imperatore, mentre, allo scatenarsi delle persecuzioni, riguardo alle loro stesse persone, mettono eroicamente in pratica la nonviolenza evangelica avviandosi, per lo più inermi e sereni, incontro al martirio.
Nell'anno 380, però, il Cristianesimo, già religione "lecita" e parecchio favorita sotto Costantino, diviene, con l'Imperatore Teodosio, addirittura religione di stato nonchè l'unica consentita entro i confini dell'Impero.
Di fronte alla nuova responsabilità del governo della più grande potenza del mondo, non si può più ignorare il fatto che non è possibile escludere a priori che ci si possa trovare costretti ad affrontare, prima o poi, un conflitto armato, non fosse altro come "extrema ratio" contro aggressioni violente ed inique ed in difesa dei giusti.
La Fede cristiana, come già detto, non ha mai negato a nessuno in alcuna delle sue fonti, a partire da quelle evangeliche, il diritto alla legittima difesa individuale o collettiva: nel 3° capitolo del Vangelo di Luca, ad alcuni soldati che gli chiedono cosa debbano fare per farsi battezzare, Giovanni Battista risponde di accontentarsi delle loro paghe e di non portare via soldi a nessuno con la violenza, non certo di cambiare mestiere in quanto quello del militare abbia qualcosa di sconveniente, e Cristo permette senza problemi che Pietro (come presumibilmente anche altri apostoli) porti una spada con sè. Nello stesso esercito della Roma pagana, poi, i cristiani non mancavano di certo e molti sono gli episodi di martirio di soldati rifiutatisi di sacrificare agli dei pagani o di compiere stragi, come nel caso della famosa "legione tebana" comandata da S. Maurizio.
Sorge quindi l'esigenza di regolamentare teologicamente la materia "guerra", al fine di stabilire a quali condizioni questa possa considerarsi lecita e quali siano i limiti da non superare affinchè non si cada nell'infrazione della legge divina. Nel 19° libro della sua monumentale opera "De civitate Dei", scritta tra il 413 ed il 426, sullo sfondo di un Impero ormai sconvolto dalle invasioni barbariche, è il Padre della Chiesa S. Agostino a farlo, affermando che, quando aggressori ingiusti rompono il "tranquillitas ordinis" (cioè la pace internazionale) e mettono in pericolo un popolo, le autorità di questo popolo hanno il dovere di difenderlo e di operare per ripristinare le condizioni minime di un assetto internazionale regolato dal diritto, se necessario con la forza militare.
Secoli dopo, S. Tommaso d'Aquino, nella sua "Summa theologiae", parla di una possibile "guerra giusta" a patto che: a) sia indetta da capi di stato e non da "privati" (moderno principio del monopolio statale dell'uso della forza); b) abbia una causa giusta, ovvero ripari ad ingiustizie; c) sia condotta con retta intenzione, con carità, senza crudeltà o cupidigia, per amore della pace e per soccorso ai buoni. Anche se guidata da una legittima autorità e per una giusta causa, una guerra può infatti divenire illecita se animata da intenzioni di sopraffazione e di conquista andanti oltre la semplice esigenza di difesa e di ristabilimento del diritto.
Sono quelli anzidetti i principi che, in ogni tempo, devono informare la condotta dei cristiani di fronte all'eventualità di crisi che comportino anche l'imbracciare delle armi.
Per venire ai nostri giorni, lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica del 1997, citando la Costituzione "Gaudium et Spes", ancora una volta ribadisce che la legittimità morale di una guerra "spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune. Coloro che si dedicano al servizio della Patria nella vita militare sono servitori della sicurezza e delle libertà dei popoli. Se rettamente adempiono al loro dovere, concorrono veramente al bene comune della Nazione e al mantenimento della pace".
La situazione mediorientale di questi giorni è tale da rendere straordinariamente attuale, come non lo era stato ormai da tanto tempo, il dibattito sui temi fin qui esaminati.
Intrerrogato recentemente su cosa si possa e debba fare contro l'avanzata e la violenza cieca dell'ISIS sulle popolazioni travolte, Papa Francesco ha fornito risposte in termini forse troppo "prudenti", che hanno indignato molti, i quali avrebbero gradito da lui un linguaggio più esplicito e meno ambiguo. Personalmente amo pure io il parlare senza peli sulla lingua ed ho spesso rispettosamente disapprovato il "dire non dire", l'arrabattarsi nel tentativo di non dispiacere a nessuno tipico dello stile oratorio dell'attuale Pontefice, ma penso anche di capire la difficoltà che comporterebbe l'usare termini ormai decisamente troppo desueti, il parlare magari di "guerra giusta" ad un uditorio mondiale del 2014 non più preparato a ciò, nel quale non è prevedibile lo scompiglio che simili parole, sia pure pienamente appropriate e giustificate, potrebbero provocare, e credo che, tutto sommato, il Santo Padre non abbia dato risposte in contrasto con quanto prescritto dalla Dottrina tradizionale in fatto di reazioni militare legittime.
In buona sostanza, Papa Francesco ha giudicato lecito "fermare" un aggressore ingiusto e violento come l'ISIS, ed ha sottolineato (con precisazione forse effettivamente non troppo felice) "fermare, non bombardare o fare la guerra". Va da sè, però, che un avversario come quello, che ti taglia la testa prima di chiederti come ti chiami, non lo puoi "fermare" se non con l'uso di qualche arma, ed inoltre il Ponteffice ha anche proposto di interessare della faccenda le Nazioni Unite (altra cosa che non è andata giù a molti, ma non è questa la sede per approfondire ciò) affinchè decidano loro i mezzi con i quali appunto "fermare" i terroristi; e quali mezzi potrebbero mai scegliere le Nazioni Unite, in una circostanza estrema simile, se non le armi?
Quanto, infine, al non doversi "bombardare, fare la guerra", se non si decontestualizza questa frase dal discorso in cui è inserita, si rileva che, appena dopo, il Papa ha aggiunto: "Quante volte, sotto questa scusa di fermare l'aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto al guerra di conquista". Dunque, mi sembra chiaro che intendesse semplicemente mettere in guardia le potenze intervenenti dalla tentazione di "fare la guerra per la guerra", dal fare cioè dell'ineluttabilità dell'intervento contro l'ISIS il pretesto ed il punto di partenza per operazioni aggressive con obiettivi ben al di là del sacrosanto dovere di fermare l'aggressore e di annullarne le capacità offensive, anche con l'uso delle armi non oltre la misura necessaria, da tutti condiviso.
Proprio quella forma di degenerazione di un'operazione originariamente giusta in una guerra di sopraffazione e di conquista che, abbiamo visto, viene bollata come illecita, prima di tutto, da S. Tommaso.
Tommaso Pellegrino
Il Cristianesimo nasce indubbiamente quale portatore di un rivoluzionario messaggio di perdono delle offese subite, di amore e di pace, in un'epoca in cui guerre di conquista, ribellioni violente e leggi del taglione, peraltro sanzionate dalle stesse religioni preesistenti, sono allegramente all'ordine del giorno. L'insegnamento del Cristo è invece di amare chi ci odia e di porgere l'altra guancia, il che, sebbene, sia chiaro, non voglia per nulla dire trasformarsi in imbelli rinunciatari all'affermazione della giustizia terrena e alla legittima difesa, costituisce pur sempre un fatto scioccante senza significativi precedenti e destinato a non essere molto ricalcato neppure dalle altre fedi che vedranno la luce in seguito, in particolare proprio da quell'Islam al centro della tragedia che si sta oggigiorno consumando: è appunto il libro sacro dei musulmani, il Corano, ad esempio, a prescrivere (IX,5): "Uccidete i politeisti, ovunque li troviate, (...), assediateli ed opponetevi ad essi, in tutte le loro imboscate".
E non si tratta soltanto di "teoria" o di espressioni metaforiche: già lo stesso fondatore di quella religione, Maometto (e non, quindi, qualche suo successore d'epoca posteriore, che potrebbe anche avere travisato un diverso messaggio originario), prima di morire conquista a mano armata fior di territori e dissemina la sua strada di cadaveri. Ricordiamo tutti lo sbottare del compianto don Gianni Baget Bozzo, in una trasmissione televisiva di qualche anno fa, contro il bellimbusto di turno che intendeva spacciare la solita favoletta dell'Islam "religione di pace": "Basta! Non possiamo mettere sullo stesso piano il Cristianesimo, che è nato con i martiri, con l'Islam, che è nato con la spada in mano!".
Fermi nei propri propositi, infatti, i cristiani muovono i loro primi passi all'interno dell'Impero Romano pagano: non rivestendo ancora nessuno di essi responsabilità politiche, possono permettersi di non porsi neppure il problema di eventuali guerre con altri popoli, offensive o difensive che siano, le quali rimangono, ovviamente, affari dell'Imperatore, mentre, allo scatenarsi delle persecuzioni, riguardo alle loro stesse persone, mettono eroicamente in pratica la nonviolenza evangelica avviandosi, per lo più inermi e sereni, incontro al martirio.
Nell'anno 380, però, il Cristianesimo, già religione "lecita" e parecchio favorita sotto Costantino, diviene, con l'Imperatore Teodosio, addirittura religione di stato nonchè l'unica consentita entro i confini dell'Impero.
Di fronte alla nuova responsabilità del governo della più grande potenza del mondo, non si può più ignorare il fatto che non è possibile escludere a priori che ci si possa trovare costretti ad affrontare, prima o poi, un conflitto armato, non fosse altro come "extrema ratio" contro aggressioni violente ed inique ed in difesa dei giusti.
La Fede cristiana, come già detto, non ha mai negato a nessuno in alcuna delle sue fonti, a partire da quelle evangeliche, il diritto alla legittima difesa individuale o collettiva: nel 3° capitolo del Vangelo di Luca, ad alcuni soldati che gli chiedono cosa debbano fare per farsi battezzare, Giovanni Battista risponde di accontentarsi delle loro paghe e di non portare via soldi a nessuno con la violenza, non certo di cambiare mestiere in quanto quello del militare abbia qualcosa di sconveniente, e Cristo permette senza problemi che Pietro (come presumibilmente anche altri apostoli) porti una spada con sè. Nello stesso esercito della Roma pagana, poi, i cristiani non mancavano di certo e molti sono gli episodi di martirio di soldati rifiutatisi di sacrificare agli dei pagani o di compiere stragi, come nel caso della famosa "legione tebana" comandata da S. Maurizio.
Sorge quindi l'esigenza di regolamentare teologicamente la materia "guerra", al fine di stabilire a quali condizioni questa possa considerarsi lecita e quali siano i limiti da non superare affinchè non si cada nell'infrazione della legge divina. Nel 19° libro della sua monumentale opera "De civitate Dei", scritta tra il 413 ed il 426, sullo sfondo di un Impero ormai sconvolto dalle invasioni barbariche, è il Padre della Chiesa S. Agostino a farlo, affermando che, quando aggressori ingiusti rompono il "tranquillitas ordinis" (cioè la pace internazionale) e mettono in pericolo un popolo, le autorità di questo popolo hanno il dovere di difenderlo e di operare per ripristinare le condizioni minime di un assetto internazionale regolato dal diritto, se necessario con la forza militare.
Secoli dopo, S. Tommaso d'Aquino, nella sua "Summa theologiae", parla di una possibile "guerra giusta" a patto che: a) sia indetta da capi di stato e non da "privati" (moderno principio del monopolio statale dell'uso della forza); b) abbia una causa giusta, ovvero ripari ad ingiustizie; c) sia condotta con retta intenzione, con carità, senza crudeltà o cupidigia, per amore della pace e per soccorso ai buoni. Anche se guidata da una legittima autorità e per una giusta causa, una guerra può infatti divenire illecita se animata da intenzioni di sopraffazione e di conquista andanti oltre la semplice esigenza di difesa e di ristabilimento del diritto.
Sono quelli anzidetti i principi che, in ogni tempo, devono informare la condotta dei cristiani di fronte all'eventualità di crisi che comportino anche l'imbracciare delle armi.
Per venire ai nostri giorni, lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica del 1997, citando la Costituzione "Gaudium et Spes", ancora una volta ribadisce che la legittimità morale di una guerra "spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune. Coloro che si dedicano al servizio della Patria nella vita militare sono servitori della sicurezza e delle libertà dei popoli. Se rettamente adempiono al loro dovere, concorrono veramente al bene comune della Nazione e al mantenimento della pace".
La situazione mediorientale di questi giorni è tale da rendere straordinariamente attuale, come non lo era stato ormai da tanto tempo, il dibattito sui temi fin qui esaminati.
Intrerrogato recentemente su cosa si possa e debba fare contro l'avanzata e la violenza cieca dell'ISIS sulle popolazioni travolte, Papa Francesco ha fornito risposte in termini forse troppo "prudenti", che hanno indignato molti, i quali avrebbero gradito da lui un linguaggio più esplicito e meno ambiguo. Personalmente amo pure io il parlare senza peli sulla lingua ed ho spesso rispettosamente disapprovato il "dire non dire", l'arrabattarsi nel tentativo di non dispiacere a nessuno tipico dello stile oratorio dell'attuale Pontefice, ma penso anche di capire la difficoltà che comporterebbe l'usare termini ormai decisamente troppo desueti, il parlare magari di "guerra giusta" ad un uditorio mondiale del 2014 non più preparato a ciò, nel quale non è prevedibile lo scompiglio che simili parole, sia pure pienamente appropriate e giustificate, potrebbero provocare, e credo che, tutto sommato, il Santo Padre non abbia dato risposte in contrasto con quanto prescritto dalla Dottrina tradizionale in fatto di reazioni militare legittime.
In buona sostanza, Papa Francesco ha giudicato lecito "fermare" un aggressore ingiusto e violento come l'ISIS, ed ha sottolineato (con precisazione forse effettivamente non troppo felice) "fermare, non bombardare o fare la guerra". Va da sè, però, che un avversario come quello, che ti taglia la testa prima di chiederti come ti chiami, non lo puoi "fermare" se non con l'uso di qualche arma, ed inoltre il Ponteffice ha anche proposto di interessare della faccenda le Nazioni Unite (altra cosa che non è andata giù a molti, ma non è questa la sede per approfondire ciò) affinchè decidano loro i mezzi con i quali appunto "fermare" i terroristi; e quali mezzi potrebbero mai scegliere le Nazioni Unite, in una circostanza estrema simile, se non le armi?
Quanto, infine, al non doversi "bombardare, fare la guerra", se non si decontestualizza questa frase dal discorso in cui è inserita, si rileva che, appena dopo, il Papa ha aggiunto: "Quante volte, sotto questa scusa di fermare l'aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto al guerra di conquista". Dunque, mi sembra chiaro che intendesse semplicemente mettere in guardia le potenze intervenenti dalla tentazione di "fare la guerra per la guerra", dal fare cioè dell'ineluttabilità dell'intervento contro l'ISIS il pretesto ed il punto di partenza per operazioni aggressive con obiettivi ben al di là del sacrosanto dovere di fermare l'aggressore e di annullarne le capacità offensive, anche con l'uso delle armi non oltre la misura necessaria, da tutti condiviso.
Proprio quella forma di degenerazione di un'operazione originariamente giusta in una guerra di sopraffazione e di conquista che, abbiamo visto, viene bollata come illecita, prima di tutto, da S. Tommaso.
Tommaso Pellegrino
giovedì 14 agosto 2014
IRAQ: UNA NUOVA-VECCHIA SFIDA PER IL MONDO E PER LA CRISTIANITA'
Sembrano riportarci indietro nel tempo di secoli i tragici fatti cui stiamo assistendo in questi giorni in Iraq: il terribile dilagare, in una vasta regione del Medio Oriente, di un'orda fanatica e crudele, in preda ad inestinguibile delirio religioso, che però non assomiglia alla solita formazione di terroristi-guerriglieri (alla "talebana" per intenderci) dediti alle operazioni mordi e fuggi, ai colpi di mano o attentati seguiti dal puntuale ritorno in meandri inaccessibili, tra montagne o foreste, ove diventa pressochè inpossibile scovarli e combatterli. No: qui ci si trova di fronte a qualcosa di assimilabile piuttosto ad un attrezzato ed agguerrito esercito regolare e tradizionale che affronta lo scontro in campo aperto, combatte con carri armati ed artiglierie, conquista territori e città, nelle quali poi sfila in parate trionfali con i propri uomini in uniforme, mezzi bellici e bandiere al vento.
Non si tratta, tuttavia, dell'esercito di uno stato fin qui "ufficialmente" esistito, ma di qualcosa di nuovo-vecchio che ci rimanda ai tempi in cui eserciti animati dalla stessa fanatica fede di questo odierno, prima arabi e poi turchi, contesero a quelli dell'Occidente cristiano per circa un millennio, dalle prime conquiste successive alla nascita stessa dell'Islam, alle campagne crociate, a Lepanto, a Vienna, il dominio su popoli e nazioni: questa è l'armatadi un sedicente "stato islamico" che intende appunto far rivivere in tutto e per tutto il sogno (per gli altri popoli un incubo) di un Islam destinato a dominare il mondo intero caratterizzante quel lungo periodo di confronto armato, rispolverando anche termini come "califfo" e "califfato" che, con la fine di esso, erano ormai caduti in disuso.
Le notizie sulle crudeltà e nefandezze commesse da questi barbari nei territori travolti dalla loro avanzata lasciano allibiti; per essi sembrano essere trascorsi invano secoli di progressi nei campi della convivenza civile tra i popoli, della democrazia all'interno delle società, del diritto, della tolleranza delle appartenenze religiose o di altro genere; progressi che hanno invece profondamente condizionato orientamenti ed attitudini di chi è oggi chiamato a raccogliere la loro sfida: la comunità internazionale e, dal momento che a fare le spese della situazione, con centinaia di nuovi martiri, sono soprattutto le comunità cristiane delle zone invase, la stessa Chiesa di Roma, le quali non possono non fare i conti con la propria impreparazione di fronte ad una minaccia per esse tanto inedita, proprio in quanto non sono più quelle stesse potenze occidentali e Chiesa cattolica che in passato affrontarono (e, bisogna dirlo, sconfissero) le armate dell'espansionismo islamico cui tornano ad ispirarsi questi loro moderni emuli, le cui "forma mentis", mire e metodi sono viceversa rimasti immutati rispetto ad allora, se non addirittura ulteriormente incrudeliti.
Così, onde cercare di contenere l'avanzata di questi ossessi a rischio di provocare un genocidio e di travolgere il debole regime "ufficiale" di Baghdad, gli Stati Uniti di Obama si sono visti costretti ad intervenire in quattro e quattr'otto - e controvoglia, poichè uno dei successi vantati dal Presidente di fronte all'opinione pubblica del suo Paese era appunto stato quello di essere riuscito a portarlo definitivamente fuori dal pantano irakeno, in teoria sufficientemente pacificato e democraticizzato - con bombardamenti aerei mirati e lanci di aiuti per le popolazioni costrette alla fuga e ad interminabili tribolazioni sotto l'incalzare degli invasori.
Il Santo Padre ha, dal canto suo, invitato a pregare per le povere vittime della situazione, che sono soprattutto cristiane, e benedetto chi si prodiga a portare loro aiuto, certamente includendo, pur senza dichiararlo esplicitamente, anche chi, quell'aiuto, lo porta proteggendo dagli aggressori le vite stesse dei perseguitati con l'unico strumento nell'immediato impiegabile contro una simile furia cieca, che è quello delle armi. Da qui l'ovvia assenza di ogni sua critica o condanna controi raids aerei americani o la legittima aspirazione ad armarsi da parte di popolazioni semplicemente non intenzionate a finire schiacciate come topi.
Tale comportamento non può non significare una tacita ed imbarazzata presa d'atto che, pur non potendo esprimere ai quattro venti certi termini, in quanto la loro ormai secolare desuetudine porterebbe ad equivocare e ad urtare talune sensibilità moderne abituate a ben altro tipo di linguaggio da parte della Chiesa, questa volta è davvero innegabile che sussistano gli estremi, nelle risposte militari che si sono dovute obbligatoriamente adottare, della famosa "guerra giusta", piaccia o no espressamente prevista dalla Dottrina cattolica e teorizzata da Padri e Dottori della Chiesa del calibro di S. Agostino e S. Tommaso d'Aquino, quale "extrema ratio" quando diviene impossibile ogni altra via d'uscita pacifica da una situazione che imponga la legittima difesa contro atti altrui estremamente ingiusti e violenti.
Il Papa ha giustamente ricordato, nei giorni scorsi, che alla violenza non ci si oppone con la violenza, nel senso che essa non può assurgere al rango di unico o privilegiato mezzo al quale affidare la risoluzione degli umani contenziosi, ma è ovvio che questo non può mai escludere che si debba ricorrere , nell'immediato, ad ogni mezzo idoneo a fermare stragi di innocenti o soprusi indicibili ai loro danni: permettere che tante persone finiscano martiri per il solo nostro rifiuto, motivato da un criminalmente errato concetto del dovere cristiano, ad impiegare tutti i mezzi in nostro possesso atti ad evitare ciò, equivarrebbe ad un delitto frutto di fanatismo religioso non meno grave di quelli di chi, per gli stessi motivi, prende a sterminare direttamente vite umane. Alla follia della "guerra santa" non si può opporre quella di un'"imbellità santa".
Come si vede, in conclusione, ciò che sta accadendo in regioni non poi così lontane dal nostro mondo tutto sommato "tranquillo" rappresenta una sfida come forse mai nessun'altra alle nostre certezze di uomini e cristiani del nostro tempo, che credevano ormai irreversibilmente sepolti nel passato certi incubi collettivi e la necessità di affrontarli con fermezza e lucidità.
Tommaso Pellegrino
Non si tratta, tuttavia, dell'esercito di uno stato fin qui "ufficialmente" esistito, ma di qualcosa di nuovo-vecchio che ci rimanda ai tempi in cui eserciti animati dalla stessa fanatica fede di questo odierno, prima arabi e poi turchi, contesero a quelli dell'Occidente cristiano per circa un millennio, dalle prime conquiste successive alla nascita stessa dell'Islam, alle campagne crociate, a Lepanto, a Vienna, il dominio su popoli e nazioni: questa è l'armatadi un sedicente "stato islamico" che intende appunto far rivivere in tutto e per tutto il sogno (per gli altri popoli un incubo) di un Islam destinato a dominare il mondo intero caratterizzante quel lungo periodo di confronto armato, rispolverando anche termini come "califfo" e "califfato" che, con la fine di esso, erano ormai caduti in disuso.
Le notizie sulle crudeltà e nefandezze commesse da questi barbari nei territori travolti dalla loro avanzata lasciano allibiti; per essi sembrano essere trascorsi invano secoli di progressi nei campi della convivenza civile tra i popoli, della democrazia all'interno delle società, del diritto, della tolleranza delle appartenenze religiose o di altro genere; progressi che hanno invece profondamente condizionato orientamenti ed attitudini di chi è oggi chiamato a raccogliere la loro sfida: la comunità internazionale e, dal momento che a fare le spese della situazione, con centinaia di nuovi martiri, sono soprattutto le comunità cristiane delle zone invase, la stessa Chiesa di Roma, le quali non possono non fare i conti con la propria impreparazione di fronte ad una minaccia per esse tanto inedita, proprio in quanto non sono più quelle stesse potenze occidentali e Chiesa cattolica che in passato affrontarono (e, bisogna dirlo, sconfissero) le armate dell'espansionismo islamico cui tornano ad ispirarsi questi loro moderni emuli, le cui "forma mentis", mire e metodi sono viceversa rimasti immutati rispetto ad allora, se non addirittura ulteriormente incrudeliti.
Così, onde cercare di contenere l'avanzata di questi ossessi a rischio di provocare un genocidio e di travolgere il debole regime "ufficiale" di Baghdad, gli Stati Uniti di Obama si sono visti costretti ad intervenire in quattro e quattr'otto - e controvoglia, poichè uno dei successi vantati dal Presidente di fronte all'opinione pubblica del suo Paese era appunto stato quello di essere riuscito a portarlo definitivamente fuori dal pantano irakeno, in teoria sufficientemente pacificato e democraticizzato - con bombardamenti aerei mirati e lanci di aiuti per le popolazioni costrette alla fuga e ad interminabili tribolazioni sotto l'incalzare degli invasori.
Il Santo Padre ha, dal canto suo, invitato a pregare per le povere vittime della situazione, che sono soprattutto cristiane, e benedetto chi si prodiga a portare loro aiuto, certamente includendo, pur senza dichiararlo esplicitamente, anche chi, quell'aiuto, lo porta proteggendo dagli aggressori le vite stesse dei perseguitati con l'unico strumento nell'immediato impiegabile contro una simile furia cieca, che è quello delle armi. Da qui l'ovvia assenza di ogni sua critica o condanna controi raids aerei americani o la legittima aspirazione ad armarsi da parte di popolazioni semplicemente non intenzionate a finire schiacciate come topi.
Tale comportamento non può non significare una tacita ed imbarazzata presa d'atto che, pur non potendo esprimere ai quattro venti certi termini, in quanto la loro ormai secolare desuetudine porterebbe ad equivocare e ad urtare talune sensibilità moderne abituate a ben altro tipo di linguaggio da parte della Chiesa, questa volta è davvero innegabile che sussistano gli estremi, nelle risposte militari che si sono dovute obbligatoriamente adottare, della famosa "guerra giusta", piaccia o no espressamente prevista dalla Dottrina cattolica e teorizzata da Padri e Dottori della Chiesa del calibro di S. Agostino e S. Tommaso d'Aquino, quale "extrema ratio" quando diviene impossibile ogni altra via d'uscita pacifica da una situazione che imponga la legittima difesa contro atti altrui estremamente ingiusti e violenti.
Il Papa ha giustamente ricordato, nei giorni scorsi, che alla violenza non ci si oppone con la violenza, nel senso che essa non può assurgere al rango di unico o privilegiato mezzo al quale affidare la risoluzione degli umani contenziosi, ma è ovvio che questo non può mai escludere che si debba ricorrere , nell'immediato, ad ogni mezzo idoneo a fermare stragi di innocenti o soprusi indicibili ai loro danni: permettere che tante persone finiscano martiri per il solo nostro rifiuto, motivato da un criminalmente errato concetto del dovere cristiano, ad impiegare tutti i mezzi in nostro possesso atti ad evitare ciò, equivarrebbe ad un delitto frutto di fanatismo religioso non meno grave di quelli di chi, per gli stessi motivi, prende a sterminare direttamente vite umane. Alla follia della "guerra santa" non si può opporre quella di un'"imbellità santa".
Come si vede, in conclusione, ciò che sta accadendo in regioni non poi così lontane dal nostro mondo tutto sommato "tranquillo" rappresenta una sfida come forse mai nessun'altra alle nostre certezze di uomini e cristiani del nostro tempo, che credevano ormai irreversibilmente sepolti nel passato certi incubi collettivi e la necessità di affrontarli con fermezza e lucidità.
Tommaso Pellegrino
martedì 11 marzo 2014
IN LIBRERIA: LA TIARA E LA CORONA
Quasi un secolo di amore-odio tra Papato e monarchia sabauda.
E' noto come l'epopea del Risorgimento italiano abbia dovuto svolgersi, piaccia o no, in aperto contrasto con la Chiesa cattolica, rappresentata da un Papato investito anche di un potere temporale, su un principato esteso su circa un sttimo del territorio italiano, che i Papi, da oltre un millennio, considerano basilare affinchè sia loro possibile l'esercizio di quello spirituale, nelle indispensabili condizioni di libertà e di indipendenza da qualsiasi altra autorità sovrana terrena, e sulla cui origine divina non hanno dubbi.
Diventa dunque inevitabile il conflitto tra una Chiesa tenacemente arroccata su simili posizioni e chiunque si trovi dall'altra parte della barricata: anche se si tratta della cattolicissima monarchia sabauda, che tuttavia si mette alla testa del movimento di riscatto nazionale e per questo va incontro alle più amare incomprensioni, intolleranze reciproche, persino battaglie sul terreno, con la più alta autorità religiosa della Terra.
Il libro cerca di ricostruire appunto la storia di tale travagliato rapporto lungo i quasi cento anni che vanno dall'apertura del Regno di Sardegna alle nuove idee liberali e risorgimentali, al varo delle sue prime leggi contro privilegi clericali ed ordini religiosi, alla graduale spoliazione manu militari dei territori dello Stato Pontificio, con conquista finale della stessa Roma, ai settant'anni di convivenza, nella stessa capitale, di una monarchia scomunicata e di un Papa "prigioniero" della prima, al sospirato accordo, infine, che pone finalmente termine alla più singolare ed imbarazzante situazione di conflitto in cui si sia trovato a dibattersi uno Stato moderno negli ultimi secoli.
Disponibile nelle migliori librerie, o ordinabile direttamente all'autore (tramite e-mail all'indirizzo tommypellegrino@libero.it) o all'editrice Roberto Chiaramonte Editore di Collegno (TO) (e-mail: roberto.chiaramonte@fastwebnet.it).
E' noto come l'epopea del Risorgimento italiano abbia dovuto svolgersi, piaccia o no, in aperto contrasto con la Chiesa cattolica, rappresentata da un Papato investito anche di un potere temporale, su un principato esteso su circa un sttimo del territorio italiano, che i Papi, da oltre un millennio, considerano basilare affinchè sia loro possibile l'esercizio di quello spirituale, nelle indispensabili condizioni di libertà e di indipendenza da qualsiasi altra autorità sovrana terrena, e sulla cui origine divina non hanno dubbi.
Diventa dunque inevitabile il conflitto tra una Chiesa tenacemente arroccata su simili posizioni e chiunque si trovi dall'altra parte della barricata: anche se si tratta della cattolicissima monarchia sabauda, che tuttavia si mette alla testa del movimento di riscatto nazionale e per questo va incontro alle più amare incomprensioni, intolleranze reciproche, persino battaglie sul terreno, con la più alta autorità religiosa della Terra.
Il libro cerca di ricostruire appunto la storia di tale travagliato rapporto lungo i quasi cento anni che vanno dall'apertura del Regno di Sardegna alle nuove idee liberali e risorgimentali, al varo delle sue prime leggi contro privilegi clericali ed ordini religiosi, alla graduale spoliazione manu militari dei territori dello Stato Pontificio, con conquista finale della stessa Roma, ai settant'anni di convivenza, nella stessa capitale, di una monarchia scomunicata e di un Papa "prigioniero" della prima, al sospirato accordo, infine, che pone finalmente termine alla più singolare ed imbarazzante situazione di conflitto in cui si sia trovato a dibattersi uno Stato moderno negli ultimi secoli.
Disponibile nelle migliori librerie, o ordinabile direttamente all'autore (tramite e-mail all'indirizzo tommypellegrino@libero.it) o all'editrice Roberto Chiaramonte Editore di Collegno (TO) (e-mail: roberto.chiaramonte@fastwebnet.it).
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