Voilà, i giochi si direbbero ormai fatti. Mentre il mondo assiste, da un lato, alla lunga, e per noi non sempre facilmente comprensibile, maratona elettorale preparatoria di quella che sarà poi la vera e propria sfida finale per arrivare a sedersi sulla poltrona di presidente degli Stati Uniti, e, dall'altro, al viceversa rapidssimo consumarsi di ciò che ha avuto tutta l'aria di essere soltanto un semplice rito volto a conferire il formale sigillo di investitura popolare ad un'elezione presidenziale russa in realtà già del tutto scontata nel suo esito, in un ambiente politico obiettivamente ancora molto da perfezionare in fatto di vera democraticità, anche in Italia parrebbero a questo punto defintivamente disegnate le formazioni destinate ad affrontarsi, fra non molto, nella prova elettorale che dovrebbe inaugurare, dopo le non entusiasmanti esperienze del recente passato, una nuova fase nella vita politica nazionale, caratterizzata da un importante passo in avanti sulla strada della costruzione di una vera democrazia dell'alternanza al potere tra due principali proposte alternative: il passaggio dall'epoca delle grandi coalizioni contrapposte, troppo spesso oltremodo eterogenee, a quella dei grandi partiti, per il fatto stesso di essere tali, almeno in teoria, notevolmente più compatti ed affidabili.
Avevamo, su questo stesso blog, accolto con favore (e una punta d'invidia per essere state loro, e non noi, a raggiungere per prime tale risultato) la fusione delle due principali componenti del vecchio centro-sinistra nel nuovo Partito Democratico; poi, dopo un po' di tempo, chiarita qualche passeggera incomprensione nel centro-destra, qualcosa di analogo è successo anche da quella parte della barricata, con la nascita del Popolo della Libertà, non ancora un vero e proprio partito, bisogna ammetterlo, ma comunque un nuovo soggetto politico con tutte le carte in regola per diventarlo al più presto, a partire dalla presentazione alle elezioni di tutti i componenti sotto uno stesso simbolo e con un unico programma e dall'impegno a formare poi un unico gruppo parlamentare nella prossima legislatura.
Presentandosi di fronte agli elettori "da solo" o quasi, vale a dire senza le zavorre, alla propria sinistra, dei massimalisti rossi e, alla propria destra, dei soliti partitucoli e personaggi banderuola centristi (quelli, per intenderci, famosi per non aver quasi mai partecipato a due elezioni di seguito nello stesso campo), il PD ha scelto la via della proposta chiara di una compagine unita nell'adesione ad un programma e matura per governare un Paese occidentale dei nostri giorni, se (speriamo comunque di no) dovesse risultare trionfatrice. In altre parole bisogna riconoscere che, tagliati finalmente i ponti con i compari di chi gridava in piazza "10-100-1.000 Nassirya" ed era causa di infinito imbarazzo internazionale per l'Italia oltre che della letterale impossibilità di governare passabilmente per il governo Prodi, la squadra veltroniana appare davvero come qualcosa di finalmente paragonabile all'omonimo partito statunitense o al partito laburista britannico, cioè come quel genere di centro-sinistra che non potrà ovviamente rappresentare la nostra forza politica di appartenenza, ma la cui esistenza e buona salute noi riteniamo indispensabili per il funzionamento della democrazia quale la intendiamo: veri avversari politici in un contesto di competzione democratica, con i quali siano concepibili anche eventuali dialoghi costruttivi (mai inciuci!), e non quasi nemici in una guerra civile.
Sul versante opposto, il PDL si è analogamente scrollato di torno inopportuni ed imbarazzanti ex compagni di strada delle frange estreme della destra anti-sistema, e chi non ha ancora semplicemente voluto capire o accettare che questa non può più essere l'epoca delle vecchie alleanze, bensì dei grandi partiti, che bisogna ormai imbarcare nel progetto comune da presentare agli elettori soltanto chi se la sente di impegnarsi in esso al punto da rinunciare a propri simboli e liste (solo riguardo alla Lega Nord può essere giustificato, almeno per ora, un discorso a parte). Come si è già affermato altrove, il fatto di integrarsi in un partito è di per sè garanzia di adesione ben più convinta ed irreversibile ad un programma che non il semplice ammucchiarsi in una coalizione all'occorrenza abbandonabile senza troppi traumi. Si è da più parti insinuato che il PDL sia diventato un partito di destra, e non più di centro-destra, per essersi rifiutato di apparentarsi con la casiniana UDC: in realtà, in esso, la componente maggioritaria rimane Forza Italia, che è squisitamente di centro-destra, mentre proprio quel movimento di recente formazione che pretenderebbe di incarnare "la Destra" più genuina ne è rimasto coerentemente fuori. Respingedo l'UDC, si è semplicemente detto di no ad una piccola forza rivelatasi non ancora rassegnata all'ineluttabilità della nuova tendenza imboccata dalla politica italiana, tuttora abbarbicata all'idea di un "centro" non tenuto alla scelta di campo coerente e definitiva in un panorama bipolare, una piccola forza che sta ora dimostrando appieno quanto labile fosse ormai diventata la sua adesione a valori e programmi del centro-destra (e quindi quanto poco ci abbia, alla fin della fiera, rimesso lo stesso PDL a non avercela in squadra), riversando sugli ex compagni di strada, e di cinque anni di governo, giudizi che sembrerebbero uscire dalla bocca di acerrimi avversari di sempre, più che da quella di aspiranti alleati di appena qualche giorno prima.
Un sistema politico funzionante basato sul confronto tra grossi partiti che si presentano agli elettori con programmi chiari, credibilità e concreta possibilità di guidare il Paese, qualora baciati dal successo alle urne, in luogo delle vecchie armate brancaleone messe insieme al solo scopo di battere un avversario opportunamente demonizzato, e poi incapaci di una qualsiasi linea di governo efficace, coerente e costruttiva: è dunque questa la grande scommessa che l'Italia deve vincere per il futuro.
Qualcuno ha obiettato ed obietta che un tale stato di cose non rientrerebbe nelle tradizioni del nostro Paese, che, se esso è naturale per il mondo anglosassone, da queste parti abbiamo una storia diversa. Noi rispondiamo che, se la posta in gioco è cercare di migliorare per quanto possibile un sistema che, così com'era, si poteva dire giunto alla frutta, vale la pena anche di fare tesoro dell'esperienza altrui, natualmente senza prescindere dagli indispensabili adattamenti da applicare ad ogni situazione concreta nazionale.
In questo periodo, con sotto gli occhi gli esempi di elezioni nei maggiori stati del mondo, non mancano gli spunti di riflessione per farsi un'idea di quale possa essere il più idoneo.
Tommaso Pellegrino
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2 commenti:
Carissimo,
non pensavo che, da una semplice ricerca sui Navigli di Milano, mi dovessi spingere fino all'epoca Romana. Questione di curiosità, alla ricerca di prove tangibili su quello che fu il Porto fluviale di Milano, dell'Età Imperiale.
Pertanto, sono molto meno attratto dagli avvenimenti attuali, ivi comprese le elezioni, che invece nel 2006 mi assorbirono totalmente.
Ciò non toglie, però, che le viva altrettanto intensamente come due anni fa, tantè che sarei sempre al computer a scrivere tutto quello che mi balena per la testa, ogni qualvolta senta varie castronate. E forse, dalla lettura di questo articolo, che ho già visto ben impostato, trarrò linfa per scrivere qualcosa di attuale, sospendendo il filone storico antico.
E' quindi ovvio che tornerò a leggerlo.
Saluti.
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