giovedì 9 settembre 2010

OH CHE BRUTTO CASTELLO, MIRA-MIRA-MIRABELLO.


La querelle protrattasi ormai da parecchi mesi (per non dire anni), con snervanti alti e bassi, raggelamenti e riavvicinamenti, tra i due co-fondatori del Popolo delle Libertà, Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini - divisi da differenti vedute su stile e contenuti da dare a quell'azione politica che avrebbero invece dovuto portare avanti compattamente insieme, come da volontà degli elettori - sembra essere giunta ad un punto di svolta, dopo il discorso fiume pronunciato dal secondo, domenica 5 settembre, in quel di Mirabello, tradizionale luogo di raduno annuale di quella destra un tempo missina, dove, a questo punto penso si possa ben dire "in un'altra vita", il Gianfranco nazionale venne indicato personalmente come proprio "delfino" dall'allora guru indiscusso di quel piccolo mondo ancora da "sdoganare" verso una piena partecipazione alla vita politica del Paese, Giorgio Almirante.
Non che in tale occasione sia emerso qualcosa di clamoroso o che non si sapesse già da prima, ma tutto il castello di lapidarie esternazioni uscito domenica dalla bocca del co-fondatore del PDL non fa che confermare la sensazione (sgradevolissima per chi, nella benedizione di avere finalmente un partito unico del centro-destra idoneo a governare bene, in armonia e senza intoppi, nell'interesse generale del Paese, ci aveva creduto per davvero) che si stiano preparando invece, in ogni caso, tempi tanto difficili per la politica italiana quali non se ne ricordavano ormai da parecchio.
Fini ha infatti ribadito ancora una volta la propria disponibilità a non far mancare la fiducia propria e dei suoi seguaci all'esecutivo in carica, probabilmente soprattutto onde cautelarsi in anticipo contro l'addossamento a lui della responsabilità, che si rende conto essere pesantissima, di eventuali crisi di governo, ma ha anche fatto presagire che il suo appoggio ai singoli provvedimenti governativi non sarà sempre scontato e andrà negoziato di volta in volta in un andazzo logorante oltre ogni misura, al quale l'unica alternativa sembrerebbero essere la fine della legislatura e le elezioni anticipate, con tutte le incognite e la situazione paradossale che tuttavia ciò comporterebbe.
Chi sostiene il punto di vista del presidente della Camera nega ovviamente ogni responsabilità dello stesso nella grave crisi politica che si sta attraversando. Fini sarebbe stato vittima di un provvedimento di espulsione "stalinista" (parole dello stesso Gianfranco) per mano di Berlusconi; lui si sarebbe semplicemente eretto a promotore di una maggiore libertà di dissenso all'interno del partito, di un centro-destra meno "peronista", più attento a non mettere in discussione i meccanismi e le istituzioni garanti della democrazia,più moderno ed in linea con i grandi partiti europei della stessa area.
Ora, è ovvio ed auspicabile che, in una grande formazione politica da sistema più o meno perfettamente bipartitico, convivano punti di vista anche assai differenti tra loro su specifici temi e che sia consentito esprimerli: sono un esempio di ciò le elezioni primarie negli Stati Uniti, dove si sfidano appunto tra loro candidati portatori di messaggi diversi, pur nell'indiscutibile appartenenza allo stesso partito, e che non sarebbero neppure possibili se tutti i membri del medesimo fossero monoliticamente d'accordo su tutto; ma, se l'espressione del dissenso interno supera ogni limite fisiologico, se diventa un sistematico contraddire il proprio partito ad ogni minima occasione, può ancora dirsi sostenibile una simile stuazione? E può definirsi vittima di "stalinismo" chi, avendo mantenuto tale condotta, venisse alla fine, con rammarico, espulso?
E siamo tutti d'accordo sulla desiderabilità di una destra moderna, democratica ed europea. Chi mai, d'altronde, ne vorrebbe una di matrice superata, con aspirazioni dittatoriali ed incomprensibile al di fuori dei confini nazionali? Il punto è che il centro-destra italiano, inutile negarlo, ha tratto, sinora, una parte consistente della propria forza dalla volitività e dalle doti di trascinatore di un leader carismatico. E' ben vero che bisognerà, prima o (possibilmente non troppo) poi, gradualmente "normalizzare" la situazione anche sotto questo aspetto: dovrà fare qualche passo indietro il clima forse un po' troppo da "culto della personalità" del capo tuttora vigente, si dovranno pur fare emergere nuovi leader credibili ed in grado di garantire sopravvivenza ed unità al partito anche quando, non fosse altro che per ragioni anagrafiche, si dovrà fare a meno della personalità cementatrice di Berlusconi. E' ahimè vero che quest'ultimo, un po' per "deformazione professionale" dovuta alla storia personale di audacissimo imprenditore e non di politico di professione, ed un po' per altre questioni caratteriali, tende forse troppo ad assimilare il mestiere di guidare una Nazione a quello, invece diversissimo, di condurre un'impresa, con conseguenti reazioni a volte eterodosse di fronte a regole ed istituti propri dell'impianto democratco, visti istintivamente come impedimenti alla legittima frenesia di "fare" del premier. Ma è anche vero che non è quella somministrata dal presidente della Camera la medicina giusta per questi "mali": per il momento, non è ancora possibile, in Italia, un'azione efficace di governo, nel segno del centro-destra, che prescinda dalla leadership del Cavaliere, esercitata con la serenità necessaria, pur senza che sia minimamente bandita la critica interna, quando costruttiva e non mirante a far cadere questa condizione essenziale.
Proprio questo, invece, è stato fatto ora, qualunque via d'uscita si trovi poi allo stato di smarrimento e di incertezza sul prossimo futuro in cui ci si dibatte attualmente.
E di chi siano le gravissime responsabilità di questo stato di cose è chiarissimo.
Tommaso Pellegrino

sabato 12 giugno 2010

I 150 ANNI DELL'UNITA' D'ITALIA? CELEBRIAMOLI, ECCOME, MA SENZA TACERE DI CIO' CHE AVREBBE POTUTO ESSERE E NON E' STATO.


"Unità d'Italia e coesione sociale non significano centralismo e burocratismo", ha dichiarato il Capo dello Stato Napolitano domenica 6 giugno a Santena (Torino), in occasione del bicentenario della nascita del conte Camillo Benso di Cavour, il principale artefice di quell'Unità d'Italia di cui molti oggi si chiedono persino se sia il caso o meno di celebrarne il 150° anniversario, e quasi rispondendo a quanti tale domanda sembrano porsi con maggiore insistenza e, a volte, neppure troppo celati secondi fini politici.

Il fatto che non tutti sentano la necessità di festeggiare l'evento, a dire il vero, non stupisce più di tanto, in un Paese che non riesce a trovare una ricorrenza nazionale in cui realmente riconoscersi per intero, che continua ad avere un 25 aprile "di sinistra", un 4 novembre "di destra" e le idee più coloritamente confuse su quale possa essere la "Patria", o comunque la comunità umana, di cui sentirsi davvero parte integrante senza riserve, con il cuore e con la mente.

L'Unità d'Italia, così come fu conseguita nel 1861, presenta tuttavia caratteri particolari: si trattò della proclamazione, da parte del Parlamento di Torino nel marzo 1861, del Regno d'Italia per cambio di denominazione di quello di Sardegna, in seguito alle annessioni, tramite plebisciti, delle terre del Mezzogiorno conquistate soprattutto dall'azione di Garibaldi, le quali, andando ad aggiungersi a quelle precedentemente acquisite di Lombardia, Toscana, Emilia -Romagna ecc., portavano finalmente il dominio sabaudo ad estendersi dall'estremo nord all'estremo sud di quella realtà geografica ed umana da sempre riconosciuta appunto come Italia, a prescindere dalla sua mai veramente attuata unità politica.

Era però un'Italia ancora incompleta, mancando all'appello Roma e vaste porzioni del nord-est; e così quella svolta, sempre considerata (non certo a torto) più un punto di partenza che non di arrivo, finì per essere oscurata, nell'immaginario collettivo e nelle celebrazioni ufficiali, da altri avvenimenti quali la presa di Roma del 1870 o la vittoria definitiva sull'Austria del 1918, maggiormente riconosciuti, a seconda delle scuole di pensiero, come i veri atti conclusivi del processo risorgimentale e coronamenti del sogno dell'unità nazionale. A maggior ragione in epoca repubblicana, poi, quello che pareva quasi soltanto il trionfo militare di una casa regnante, in seguito bollata, almeno dalla predominante "vulgata", come corresponsabile di vent'anni di dittatura fascista e, alla fine, affogata nella vergogna dell'8 settembre 1943, deve essere sembrato cosa ancora più piccola e parziale, in confronto al raggiungimento della Repubblica quale autentico suggello dell'edificazione dell'Italia moderna e democratica. Dell'Unità d'Italia proclamata nel 1861 ci si ricordò quindi ancora ogni cinquant'anni, con le grandi manifestazioni celebrative del 1911 e del 1961, ma poco di più.

Eppure, è proprio l'Unità d'Italia, comunque realizzata, la condizione indispensabile non solo affinchè si potesse approdare al Paese repubblicano qual'è oggi, ma anche perchè ci si potesse a suo tempo integrare in Europa ed aspirare, ora, ad un giusto federalismo rispettoso tanto delle esigenze peculiari di ogni parte della Nazione come delle "unità e coesione" sottolineate dal Capo dello Stato. Gli staterelli italiani preunitari come avrebbero mai potuto continuare ad esistere disuniti di fronte al mondo che, tra Ottocento e Novecento, prendeva a cambiare a velocità iperbolica?

L'idea che, nel centocinquantenario, non ci sia "proprio nulla da celebrare" è tipica espressione della tradizionale tendeza all'autodenigrazione degli italiani e non è degna di un popolo che, nel ricordo delle tappe fondamentali della propria storia, deve trovare l'ispirazione per sentirsi tale ed affrontare compatto anche le sempre meno facili sfide dei tempi odierni.

Su come poi questa benedetta Unità d'Italia si sia praticamente realizzata, sul perchè sia alla fine prevalso un modello di stato centralista anzichè uno federale, certo più adatto ad un Paese con storia e tradizioni diverse da luogo a luogo come il nostro, sulla scarsa partecipazione di popolo alle lotte risorgimentali e sull'impatto spesso traumatico dell'unificazione su intere popolazioni, fino alle stragi inaudite perpetrate dal nuovo ordine costituito nel nome della cosiddetta "repressione del brigantaggio", la discussione può, anzi deve, essere aperta: no ad una pura e semplice celebrazione retorica e acritica di un mito, stile testi scolastici accompagnanti generazioni e generazioni di nostri scolari, si a festeggiamenti arricchiti da opportuni approfondimenti su aspetti magari poco conosciuti di quella fase cruciale della nostra storia recente, sulle occasioni mancate per pervenire a risoluzioni della questione dell'unità e dell'indipendenza italiane che si sarebbero forse rivelate migliori di quelle poi effettivamente adottate.

Così si potrebbe scoprire, ad esempio, che l'idea di un'Italia federale anzichè centralista, oltre che animare, come noto, patrioti-pensatori di grande cervello, ma con scarso potere pratico, quali Cattaneo o Gioberti, non dispiaceva neppure allo stesso conte di Cavour, comunemente dipinto, esaltando o deprecando ciò a seconda delle proprie opinioni, come il paladino dell'Unità dItalia intesa come conquista dell'intero Paese da parte delle armi sabaude. Invece, come risulta dall'esame degli accordi presi da lui e da Napoleone III a Plombières, pocoo prima dello scoppio della Seconda Guerra d'Indipendenza, al premier piemontese sarebbe bastata l'estensione del dominio diretto dei Savoia, a spese dell'Austria, alla sola Italia settentrionale (la "Padania", guarda caso!), mentre, per il centro Italia, ci si accordava per la creazione di un regno da affidare probabilmente ad un parente dell'imperatore francese e, riguardo al sud, per il mantenimento al potere dei Borboni, se solo questi avessero riconcesso la costituzione e aderito al progetto di federazione dei tre regni italiani sotto la presidenza onoraria del Papa, il quale sarebbe così anche stato compensato per la perdita di talune parti delo Stato Pontificio di prevista assegnazione alle Due Sicilie.

In quale tutt'altra maniera si svolsero poi le cose è noto: contattato da un emissario di Cavour poco prima della spedizione dei Mille, il bigottissimo re di Napoli Francesco II rifiutò la suddetta soluzione per non intaccare i territori papalini; Garibaldi portò fulmineamente a termine la sua impresa più celebre ed il Piemonte cavouriano fu costretto ad intervenire per non perdere il controllo della situazione, annettendosi poi plebiscitariamente le regioni meridionali italiane.

Neppure nella primavera del 1861, tuttavia, cioè ormai immediatamente a ridosso dell'unificazione, poteva dirsi del tutto accantonata ogni aspirazione ad uno stato maggiormente basato sulle autonomie locali: il ministro degli Interni Minghetti presentò infatti, allora, un progetto di legge circa un ampio decentramento ai comuni che solo le sopraggiunte notizie delle prime rivolte scoppiate nel meridione, ed il timore che di troppa autonomia potessero approfittare i notabili borbonici per riprendersi il potere, gli indussero a ritirare, aprendo così le porte all'affermazione di un sistema più rigidamente centralistico.

Il centocinquantenario dell'Unità nazionale, da celebrarsi senza disconoscere stupidamente la fondamentalità di una tappa comunque inevitabile del nostro cammino, ma pure senza sottrarsi, nascondendosi dietro a comode retoriche preconfezionate, ad una severa riflessione sulle luci e sulle ombre del lungo processo storico che ad essa condusse, sulle cose che si sarebbero potute fare e non si fecero, o che si sarebbero potute evitare e non si evitarono, può essere davvero l'occasione per rinsaldarci come popolo e ricavare così l'energia per affrontare, oggi, quelle riforme e quei progressi che completerebbero l'opera dei nostri padri.

Tommaso Pellegrino

giovedì 1 aprile 2010

HA VINTO IL GOVERNO.


Si sono finalmente concluse le elezioni regionali più strane e travagliate degli ultimi anni, e quasi certamente dell'intera storia di questa tipologia di consultazioni, da quando le stesse furono istituite.

Elezioni alle quali, da più parti, si è cercato di dare soltanto il significato di un referendum pro o contro il Presidente del Consiglio Berlusconi e la sua opera di governo nell'ultimo biennio; elezioni quasi per nulla precedute da una sana campagna caratterizzata dal naturale confronto tra le parti in lizza sui rispettivi programmi pensati per affrontare i reali problemi dei cittadini (complice anche una singolare messa al bando dei talk-show televisivi di genere politico per tutto il periodo pre-elettorale, che non staremo a commentare in questa sede), bensì preparatesi in un clima avvelenato come non mai da accuse meschine, da fanatici sfruttamenti (se non creazioni ad arte) di infimi inghippi formali onde cercare di impedire addirittura la partecipazione alla competizione ad importanti liste dell'avversario nelle principali città d'Italia, privando così gli elettori di uno dei diritti essenziali, da mosse e contromosse di un'aggressività senza precedenti, davanti agli organi istituzionali preposti a decidere sui ricorsi legali di chi si ritiene leso e persino nelle piazze del Paese.

Eppure elezioni indiscutibilmente vinte, nonostante tutto, dalla coalizione di governo guidata dal Cavalier Silvio Berlusconi: caso abbastanza raro nel copione ricorrente nella vita elettorale di un po' tutti i moderni stati democratici, una parte politica al potere, a livello nazionale, da qualche anno non è infatti stata "punita" pesantemente in elezioni (amministrative o politiche che siano) di "middle term", com'è invece recentemente accaduto in Francia con il partito del presidente Sarkozy, più volte negli Stati Uniti ed in numerose altre occasioni in diversi paesi.

Ci sarà stato qualche lieve calo rispetto alle ultime magiche politiche del 2008, ma basti dire che, nel gruppo delle tredici regioni interessate a questo voto, si è passati da due, diconsi due, regioni amministrate dal centro-destra a ben sei.

Si può osservare che, peggio che in quel 2005, che portò appunto alle due famose regioni conquistate su tredici, sarebbe stato quasi impossibile andare. Vero: allora si era verso la fine del mandato governativo di Berlusconi iniziato nel 2001, ed è quasi tradizione-vizio irrinunciabile del nostro popolo il sentirsi con le scatole piene di qualsiasi governo, indipendentemente da segno e bravura del medesimo, dopo quattro-cinque anni dal suo insediamento, il che spiega quella dèbacle indimenticabile del centro-destra, ma il risultato avrebbe anche potuto essere di nuovo quello, o di poco migliore, nonostante il più breve periodo trascorso dall'inizio di questo mandato. Da allora ad oggi, infatti, gli italiani hanno avuto modo di sperimentare e confrontare tra loro esattamente un biennio governato dal centro-sinistra ed un altro dal centro-destra: alla fine del primo, avuta la possibilità di rivotare nel 2008, hanno deciso di voltare clamorosamente pagina; al termine del secondo, e cioè proprio nelle regionali di questi giorni, hanno invece, nei fatti, riconfermato la loro fiducia nell'esecutivo in carica.

In pratica, si può dire che rimangano guidate dalla coalizione di centro-sinistra ormai soltanto quelle regioni italiane dove storicamente è pressochè impossibile immaginare un'alternativa alla predominanza di una certa ideologia, con il solo caso particolare della Puglia, dove, forse, alleanze diverse avrebbero potuto produrre pure un risultato diverso.

Ha senz'altro pesato su questo esito soprattutto l'immagine di un governo che mette il "fare" davanti a tutto e che a "fare" obiettivamente ci riesce, a dispetto della ogni sorta di ostacoli che, lealmente e slealmente, gli si vuole parare davanti (ed anche il successo del centro-destra nella provincia de l'Aquila ne è senz'altro una conferma, alla faccia di "popolo delle carriole" e detrattori in malafede vari). Patetici ed inutili sono pertanto i tentativi di dare la"colpa" di quanto è successo all'astensionismo (che peraltro ha sempre sfavorito di più il centro-destra), alla presenza in campo, con relativo successo, dei "grillini", addirittura a possibili "brogli", come insinuerebbe la zarina torinese sconfitta Bresso (ma che, siamo in Iran o in Afghanistan?).

Adesso l'esecutivo è uscito dalla prova rafforzato, c'è bisogno di un clima un po' più sereno e deve iniziare la sospirata stagione delle riforme.

Il premier sembra intenzionato a metterci finalmente seriamente mano, anche se qualcuno sembra già intento ad affilare le armi per rendere anche quella strada tutt'altro che in discesa.

Insomma, la vediamo ancora dura, ma un grosso pensiero ce lo siamo già tolto.

Tommaso Pellegrino

giovedì 11 febbraio 2010

IL CORAGGIO DI UNA SCELTA E LA PROVA DELLA SUA CREDIBILITA'.


Per l'11 febbraio, o meglio il 22 di Bahman del calendario persiano, anniversario della rivoluzione islamica, la Guida Suprema iraniana, Alì Kamenei, ha promesso "un pugno in faccia all'Occidente": può darsi che quanto avvenuto il 9 febbraio davanti all'ambasciata italiana in quel Paese, e ad altre sedi diplomatiche europee, sia da intendersi come l'antipasto, l'esercizio di riscaldamento preludente ad azioni più eclatanti, o che tutto, almeno per il momento, debba considerarsi esaurito lì.

Sotto quella data, una folla di qualche decina di giovani scalmanati, con cartelli e bandane verdi, si è dilettata nel lancio di sassi e uova contro la nostra ambasciata di Teheran, al grido di "morte all'Italia", "morte a Berlusconi" ed altre simili amenità, prima di venire dispersa senza drammi dalla polizia nel giro di una ventina di minuti. La versione ufficiale del regime degli ayatollah è che si trattasse di studenti alquanto incavolati perchè la nostra ambasciata avrebbe offerto rifugio a "facinorosi" implicati nei recenti moti antigovernativi, ma è praticamente certo che quegli esuberanti giovanotti fossero i realtà dei "basiji", cioè membri di una particolare milizia, dipendente dai più famigerati "pasdaran", adibita per lo più ad operare, in abiti borghesi, in azioni squadristiche contro i dissidenti e nella salvaguardia dell'ortodossia coranica negli ambienti giovanili e studenteschi, ove viene abilmente infiltrata.

Ora, se ovviamente a nessuno può venire spontaneo di fare i salti di gioia per il fatto in sè che dei nostri connazionali abbiano dovuto subire un attacco del genere, in noi deve prevalere, oltre all'oggettiva considerazione che tutto si è risolto senza il minimo danno a persone o cose, la consapevolezza che a spingere il regime iraniano ad una simile, tutto sommato goffa, reazione non può essere stato altro che l'atteggiamento di chiara e determinata scelta di campo operata dall'Italia, nei giorni scorsi, circa la situazione mediorientale e le questioni riguardanti più direttamente Teheran, e che proprio tale atteggiamento ha fatto grande onore al nostro esecutivo e al nostro Paese.

Come noto, nel corso del suo recente viaggio in Israele, il Presidente del Consiglio Berlusconi ha infatti finalmente mandato in soffitta ogni residuo della politica cerchiobottista o "del piede in due staffe", caratteristica dell'Italia degli anni e dei governi passati, per schierarsi nettamente da una precisa parte, in un contesto internazionale nel quale non è più possibile mantenersi neutrali spettatori e pare ormai evidente, ad ognuno dotato di buon senso ed in buona fede, quale sia la parte giusta da sostenere.

Berlusconi ha innanzitutto garantito massima solidarietà ad Israele, unico stato di tradizione democratica dell'area mediorientale, da tempo impunemente fatto oggetto, da parte di Teheran, di minacce di distruzione totale; minacce rinnovate, quel che è il colmo dell'affronto, proprio in questi giorni di commossa comemorazione mondiale dell'Olocausto. Contro l'Iran - che persiste nel rifiutare la mano tesa della comunità internazionale e nel perseguire un programma nucleare più che semplicemente sospetto di volere alla fine sfociare nell'ottenimento della bomba atomica, e che continua a soffocare nel sangue ogni anelito di libertà al suo interno - il premier italiano ha invocato le più dure sanzioni, il pieno sostegno al movimento dissidente e il progressivo abbandono de lucrosi rapporti commerciali dell'imprenditoria occidentale con quel regime.

Prese di posizione coraggiose delle quali, come scrive l'ex Capo di Stato Maggiore della Difesa Mario Arpino su "Liberal", "siamo orgogliosi, ma non potevamo pensare di uscirne indenni": la reazione iraniana è la prova che Berlusconi ha colto nel segno, che l'avversario è stato punto nel vivo.

Ricordo quando, all'atto del ritorno al governo dell'attuale premier nel 2008, da Al Qaeda o ambienti similari si levò un grido come "Allah stramaledica Berlusconi", o frase equivalente. Ne fui piacevolmente sorpreso, quell'espressione voleva dire che era tornato alla guida dell'Italia qualcuno che i massimi nemici della nostra società ritenevano un avversario credibile, che almeno prendevano in considerazione, se non proprio temevano; per il suo incolore predecessore, invece, c'è da scommettere che mai avrebbero sprecato neppure il fiato per lanciargli una "stramaledizione".

Viceversa, provai una rabbia indicibile e mi sentii offeso quando, qualche tempo fa, nell'indifferenza della nostra classe poltica tiepidina come sempre su questi temi, Ahmadinejad definì l'Italia "Paese amico" o giu d lì. Ma come si permetteva, questo figuro che comandava un regime teocratico sanguinario e che sfidava l'Occidente con lo spauracchio di costruirsi l'atomica, di insinuare che il mio Paese gli fosse amico, oltretutto senza neppure riceversi, da parte di chi avrebbe dovuto dargliela, una risposta per le rime?

Ora la questione è giunta ad un punto cruciale: l'Iran non vuole sentire ragioni e continua una attività di arricchimento dell'uranio che, se davvero dovesse portare all'arma nucleare, visto che trattasi dell'unico stato al mondo a dichiarare senza peli sulla lingua di volerne cancellare un altro dalla carta geografica, creerebbe una situazione di pericolo per la pace senza precedenti ed inaccettabile per la comunità internazionale.

Ora pare ci si voglia mettere d'impegno con le sanzioni (grazie anche alla coraggiosa azione di pressing italiana). Qualche speranza, anche se purtroppo minima, la si può ancora riporre nell'eventuale successo di una rivoluzione interna. Per ultima rimarrebbe l'opzione militare, sempre da rinviare il più possibile, ma mai da esludere del tutto a priori.

Ma qui andiamo nel campo del futuribile.

Tommaso Pellegrino