sabato 30 luglio 2011

IL BRUSCO RISVEGLIO DEL REGNO DA FAVOLA.



Sulle prime si era pensato all'ennesima offensiva terroristica da parte dell'integralismo islamico contro uno dei paesi occidentali impegnati nei vari teatri, primo fra tutti l'Afghanistan, dove più la cmunità internazionale agisce concretamente per cercare di porre un argine al fenomeno più pericoloso di questi tempi per a pace e la stabilità mondiale; una ritorsione sulla falsariga di quelle già subite in passato - senza volere scomodare l'11 settembre 2001 newyorkese, che rimane di proporzioni assolutamente imparagonabili a quelle di qualsiasi altro attentato precedente o successivo - da capitali come Madrid e Londra.



Poi, quasi subito, si è scoperto che la bomba fatta esplodere nel centro di Oslo, capitale del felice regno di Norvegia, e la strage di giovani laburisti riuniti a congresso nell'isola di Utoya, che hanno complessivamente prodotto qualcosa come 76 morti accertati, erano invece opera, al contrario, proprio del più acerrimo nemico degli aspiranti conquistatori del mondo sotto l'insegna della mezzaluna che si potesse immaginare: il trentaduenne autoctono Anders Behring Breivik, faccia da biondno per bene, passato familiare un po' burrascoso da ambino cresciuto senza padre, in testa un cocktail confuso di fondamentalismo cristiano (protestante), di xenofobia, di idee di estrema destra, di passione per i templari e per le armi da fuoco e di tante altre cose ancora.



Breivik avrebbe agito "per salvare l'Europa dall'invasione musulmana", e come l'attuazione di un simile massacro d suoi stessi connazionali potesse servire a tale causa deve averlo capito soltanto lui; di sicuro i giovani laburisti li ha visti come i rappresentanti più immediatamente colpibili di quella categoria di politici occidentali, marxisti e non, che lui giudica "traditori" (probabilmente per eccessiva cedevolezza verso gli islamici) degni di essere soppressi fisicamente.



Prima del criminale exploit, il giovanotto ha infatti pubblicato su Internet una sorta di suo delirante "Mein Kampf" di 1.500 pagine nel quale, oltre a dare sfogo a tutte le sue invettive xenofobe, individua in leaders politici attuali di primo piano come Zapatero, Angela Merkel e Sarkozy dei traditori di "categoria A" da condannare senza indugio a morte.



Per un paese come la Norvegia - uno di quei classici stati nordici che siamo abituati a considerare un po' come regni delle favole, oasi di democrazia evoluta, pulizia, pace sociale, welfare efficientissimo, lontani dalle realtà caotiche, problematiche, a volte violente delle nostre latitudini, anche se afflitti da poco invidiabili rovesci della medaglia come l'alto numero di suicidi o la crisi delle famiglie tradzionali - si è trattato senza dubbio di un brusco risveglio; qualcuno ha parlato di "perdita dell'innocenza".



Certo è che queste nazioni non sono preparate a scoprire di avere a che fare, in casa propria, con "mostri" del genere e questa tragica attualità dà ragione a coloro che, come chi scrive, non le hanno mai considerate, malgrado tutto, dei veri modelli da imitare: esse si sono chiuse nel loro guscio, non hanno spiccato tra i grandi protagonisti della storia mondiale attraverso i secoli, ma si sono ritagliate dei regni dove tutto è perfettino, obbediente a leggi in apparenza evolutissime e "civilissime", illudendosi così di chiudere fuori dalla porta di casa le brutture del mondo esterno; e, quando queste brutture irrompono prepotentemente senza neppure bussare, tanta eccessiva "perfezione" le ha portate a farsi sorprendere di fatto disarmate, a non disporre più dei mezzi giuridici, un po' più arcaici, ma gli unici idonei alla bisogna, per farvi fronte. Si pensi che, per stragi orrende come quelle compiute da Breivik, la legge norvgese, che non prevede naturalmente nè pena di morte nè ergastolo, potrebbe comminargli al massimo ventuno anni di reclusione, per di più da trascorrersi in carceri modello simil-residence di lusso, come sono ovviamente quelle di un paese "civilissimo" come la Norvegia. In alternativa, si sta studiando la possibilità di imputare il giovane stragista di "crimini contro l'umanità", il che potrbbe consentire di affibiargli fino a...trent'anni di galera,ma sarebbe probabilmente una forzatura giurdica.



Lo stragista parla adesso dell'esistenza di una moltitudine di "cellule" di "martiri" pronte a compiere altri gesti clamorosi come il suo; anche se ciò non fosse propriamente vero, esiste comuque il pericolo di emulazione.



Noi tutti abbiamo ora un motivo in più per non abbassare la guardia contro qualsiasi campagna d'odio da qualsiasi parte provenga; soprattutto chi veramente tiene a difendere l'identità cristiana europea dal più o meno prepotente imporsi degli islamici o di qualunque altra cultura estranea al Continente, ma non nel modo in cui follemente intendeva farlo Anders Breivik, riuscendo soltanto a nuocere nel peggiore dei modi anche a detta nobile causa.



Tutti dovranno fare la lro parte, e la Norvegia, in ogni caso, non potrà più essere il regno delle favole di prima.



Tommaso Pellegrino

venerdì 25 marzo 2011

LIBIA: UNA SOLA CERTEZZA E TANTE INCOGNITE.


E' partita. L'operazione militare "Odissea all'alba", autorizzata dalla risoluzione Onu n. 1973 e tesa ad impedire, con tutti i mezzi necessari tranne l'occupazione militare, una prevedibile carneficina di ribelli e semplici cittadini da parte delle forze rimaste leali al leader libico Gheddafi - riavutesi dai pochi giorni di sbandamento iniziale e tornate ad essere quelle inevitabilmente destinate a prevalere salvo il caso, appunto, di decisi interventi dall'esterno - oltre che a stabilire la famosa "no-fly zone" nei cieli interessati, è scattata da una settimana e ad essa partecipa attivamente anche l'Italia. La missione è stata quasi fanaticamente propugnata da Francia e Regno Unito, appoggiata dalla Lega Araba, accettata un po' "obtorto collo" da Italia e Stati Uniti, e decisamente non ben vista da Germania, Russia ed altri.

Prima di esprimere considerazioni su quanto sta avvenendo attualmente, sarà utile un breve riepilogo dei fatti che hanno portato alla presente situazione, e mai trattati in precedenza su questo blog.

Diciamo intanto che la comunità internazionale, nei confronti del regime libico di Gheddafi, in un primo momento, dopo gli exploits iniziali della rivolta scoppiata soprattutto in Cirenaica, con la liberazione pressochè totale di quella regione dalle forze governative, aveva già venduto, come suol dirsi, la pelle dell'orso prima di averlo ucciso.

Da qualche tempo si stava infatti allora assistendo ad analoghe sollevazioni, in Tunisia ed Egitto, che già avevano portato, senza eccessivi spargimenti di sangue, all'uscita di scena dei rispettivi leaders Ben Alì e Mubarak e all'inizio di transizioni più o meno ordinate, per lo più gestite dalle influenti classi militari locali e, si spera, orientate verso futuri assetti più democratici di quelli precedenti, data anche la rassicurante mancanza di un evidente matrice estremista islamica nei movimenti propugnatori del cambiamento in quei paesi. Analogamente e a maggior ragione, quindi, di fronte all'iniziale successo di insorti libici capaci di conquistare l'intera Cirenaica ed altre zone, di far passare dalla propria parte truppe ex governative, comandanti militari, ministri del regime, ambasciatori all'estero, di costituire un nuovo quasi-stato nelle terre liberate, con la sua capitale Bengasi, il suo "governo" (il Consiglio Nazionale di Transizione) ed il suo esercito raccogliticcio, ma discretamente armato, straordinariamente motivato, sottoposto ad addestramento e pronto a balzare alla conquista del resto del Paese, il mondo finì per ritenere ormai spacciato, un po' troppo frettolosamente, come si sarebbe visto in seguito, anche il dittatore di Tripoli Colonnello Gheddafi.

Contro di lui, per l'efferatezza con la quale reprimeva le manifestazioni dei dissidenti, facendo sparare indiscriminatamente su di loro e (pare) bombardandoli persino con l'aviazione, la condanna internazionale fu particolarmente severa, prevedendo il deferimento alla Corte dell'Aja, il congelamento dei beni ed altre sanzioni, sempre dando ormai per scontato l'imminente tramonto del suo più che quarantennale regime.

Ferme restanti la vicinanza e la solidarietà sempre dovute alla causa di chiunque sinceramente lotti e paghi di persona per la vera libertà, è tuttavia d'obbligo qualche considerazione di politica realistica che rende legittimo il non accodarsi del tutto acriticamente all'entusiasmo incondizionato delle solite anime belle nostrane, che già immaginano il rifiorire di tante perfette democrazie in stile anglosassone o svizzero in luogo dei regimi dei vari raìs nordafricani caduti come tessere di un domino: in quella parte del mondo, non dimentichiamolo, si sono dissolti governi indubbiamente dispotici al loro interno, ma sicuramente (per Gheddafi il discorso sarebbe un po' più complesso) leali verso l'Occidente, garanti di decenni di stabilità e, soprattutto, laici ed in grado di costituire un buon argine contro il pericolo del fondamentalismo islamico ad un passo dalle nostre coste; con la loro caduta non è affatto detto che le cose non possano effettivamente migliorare, ma le incognite sono tante e certo qualche cautela per il futuro di regioni dall'equilibrio tanto delicato non può non pesare sull'appoggio da accordare a chi eventualmente insorga per stravolgerne l'assetto, appoggio che può e deve essere invece pieno e senza riserve nel caso, ad esempio, dei dissidenti iraniani, in lotta appunto contro un regime dei più intransigentemente integralisti, e pericolosi per la pace e gli equilibri mondiali, già al potere, al quale ben difficilmente potrebbe subentrare qualcosa di peggio, in caso di sua caduta.

Per noi italiani in particolare, poi, la situazione nordafricana ha presentato aspetti ancora più critici ed imbarazzanti: siamo il Paese europeo geograficamente più prossimo all'area in questione;già con la caduta del regime tunisino gli sbarchi di disperati sulle nostre coste sono sensibilmente aumentati; proprio con Gheddafi avevamo addirittura stretto un patto di amicizia che funzionava discretamente specie nella parte relativa alla collaborazione per far fronte all'immigrazione clandestina nel nostro Paese, e, in ogni caso, eravamo tra i paesi con maggiori rapporti economico-commerciali con la Tripoli del Colonnello. Come biasimare, quindi, data questa nostra particolare posizione, la prudenza e l'apparente ritardo del presidente Berlusconi nell'unirsi al coro internazionale di condanna senza appello all'indirizzo di Gheddafi, prima che fosse effettivamente chiara la gravità di quanto stava accadendo in Libia?

Quando fu evidente il fatto che Tripoli andava reprimendo con violenza inaudita, persino tramite aviazione, le manifestazioni popolari anti-regime e che, così facendo, si era ormai nuovamente fatta mettere al bando dalla comunità internazionale, mentre una nuova Libia sembrava invece sorgere dalla ribellione, con buone prospettive di riuscire a prevalere sulla vecchia entro breve, nessuno, neppure Roma, potè più negare che il regime di Gheddafi non potesse più essere considerato un interlocutore praticabile e fare mancare la propria condanna ferma ad ogni massacro di civili.

Il dittatore libico, dato ormai quasi per spacciato, è però meno alla frutta di quanto non si creda: ha forze sufficienti per passare al contrattacco e lancia all'indirizzo dei suoi nemici agghiaccianti minacce di compiere autentici macelli che, c'è da giurarci, potendo manterrebbe sicuramente, data la sua fama di uomo tragicamente di parola.

Con la capitale degli insorti, Bengasi, sul punto d essere assaltata dai governativi, e quindi senza realistica speranza di scampare alla terribile vendetta del raìs, a meno di un tempestivo intervento dall'esterno, su sollecitazione soprattutto di Francia, Gran Bretagna e Lega Araba, viene emessa la risoluzione Onu n. 1973 concernente l'intervento militare internazionale per l'istituzione della "no-fly zone" sulla Libia e la protezione delle popolazioni civili dalle rappresaglie del regime.L'Italia, anche per la sua posizione geografica, che comporta l'avere sul proprio suolo le basi più idonee da mettere a disposizione degli Alleati per sferrare gli attacchi aerei, non può tirarsi indietro dal partecipare all'impresa e così inizia la strana "guerra" (le virgolette sono d'obbligo poichè oggi, la guerra, nessuno più la dichiara nè la chiama con il suo nome) che stiamo vivendo in questi giorni.

E' una situazione con una sola certezza e tante incognite. La prima è che almeno qualcuno, tra gli Alleati, stia operando più per l'abbattimento del regime di Gheddafi che non per proteggere le popolazioni civili e che, probabilmente, non mollerà fino a risultato raggiunto, anche a costo di andare ben oltre quanto contemplato dalla risoluzione Onu autorizzante l'intervento armato; quanto alle seconde, c'è solo l'imbarazzo della scelta di quale nominare per prima: intanto, non sappiamo chi siano davvero gli insorti che stiamo aiutando, quale peso abbiano, nelle loro fila, eventuali elementi integralisti islamici e quale Libia futura si prepari in caso di loro successo finale, con quali conseguenze per i nostri interessi economici, nel campo energetico come della lotta all'immigrazione clandestina; inoltre, per guardare all'immediato, non si è ancora neppure risolto bene il dilemma di chi debba avere il comando della nostra coalizione e, tra i paesi membri, si rilevano divergenze di vedute non indifferenti, con un esagerato protagonismo della Francia, che molti osservatori imputano alla volontà di voler soffiare, soprattutto all'Italia, i rapporti privilegiati nel campo commerciale e del petrolio con la Libia che verrà.

In tanta poca chiarezza, un elemento sembrerebbe apprezzabile in quanto previsto dalla risoluzione 1973, e c'è da sperare che venga rispettato fino in fondo: l'esclusione tassativa di un'occupazione del suolo libico con truppe terrestri straniere. Così, qualsiasi futuro assetto politico finisca per stabilirsi in quelle terre alla fine della tempesta, sarà comunque almeno un prodotto atoctono.

Dopo l'Iraq e l'Afghanistan, di altri esperimenti di esportazione della democrazia sulla punta delle baionette occidentali non si sentirebbe davvero la mancanza.

Tommaso Pellegrino

giovedì 6 gennaio 2011

QUALCHE SASSOLINO DALLA SCARPA...


In questi giorni di fine-inizio anno viene spontaneo fare, per usare un termine forse un po' abusato ma efficace, dei "bilanci", vale a dire soffermarsi a riflettere un po' di più di quanto non lo si faccia ordinariamente negli altri periodi, su quello a cui ci è capitato di assistere negli ultimi tempi, e magari - qualora si ritenga di essersi tenuti dentro per troppo tempo qualche considerazione, magari un po' "eterodossa", e si avverta quindi il bisogno impellente di esternarla - togliersi anche, come diceva un grande Presidente emerito della Repubblica di recente scomparso, qualche "sassolino dalla scarpa".

Sulla politica nazionale non mi sono più espresso "pubblicamente" da tempo: in ogni caso, il mio giudizio, già non certo molto lusinghiero, sull'occhialuto personaggio che ha palesemente tradito le aspettative dei suoi elettori, indebolendo gravemente la maggioranza governativa di cui faceva parte, pur senza riuscire ad abbatterla come avrebbe voluto, non può che essere ulteriormente peggiorato rispetto al post precedente a questo, risalente ai tempi del discorso di Mirabello. Tradimento e traditore sono termini senz'altro pesanti, che sembrano più consoni ad altre epoche storiche e ad altri contesti socio-politici che non all'Occidente democratico del XXI secolo, ma, purtroppo, data una simile situazione, non se ne trovano di più calzanti, ed il pronunciarli denunciando l'accaduto, seppure a malincuore, è il primo sassolino che dovevo togliermi dalla famosa scarpa. Il colpaccio in sede di dibattito parlamentare sulla fiducia, come si è detto, all'occhialuto e soci non è riuscito ancorchè per un "pelo", e questo ha fatto tirare un sospiro di sollievo a quanti, come lo scrivente (e chi mi segue da tempo lo sa), non amano eccessivamente le "cadute" degli esecutivi prima della scadenza naturale della relativa legislatura, neppure quando a governare è la parte politica loro avversa, ed ammirano invece i sistemi politici (ahimè improponibili da noi) che, come ad esempio quello americano, privilegiano innanzitutto la stabilità dell'"amministrazione" persino di fronte a cambi di maggioranza in Parlamento dovuti ad elezioni. Ora, se in Italia sarà possibile allargare una maggioranza così risicata, tanto meglio; intanto, l'essenziale era che non si seppellisse totalmente, in quel frangente, ogni possibilità di giungere sani e salvi al fatidico 2013.

Mentre nelle aule parlamentari si svolgeva il non privo di colpi di scena dibattito sulla fiducia di cui sopra, nelle strade romane a pochi metri dai palazzi del potere l'inaudita violenza vandalica di manifestazioni per così dire "studentesche" causava danni a cose e ferimenti a persone di una gravità quale non la si registrava ormai da parecchio tempo. Ma non erano normali studenti gli autori delle efferatezze più gravi: per quanto ultimamente piuttosto portate ad eccedere nelle contestazioni contro le innovazioni promosse dal ministro Gelmini, che non sto qui a giudicare per non avere approfondito a sufficienza l'argomento, ben difficilmente le ordinarie masse di studenti - in (piccola) parte politicamente consapevoli e in (gran) parte semplicemente profittanti dell'occasione per distrarsi con un po' di bagarre, lontani da banchi e libri - si sono lasciate andare ad eccessi di simili proporzioni.

I devastatori erano dei cosiddetti "black-block"; criminali allo stato purissimo usi ad approfittare di qualunque pretesto solitamente offerto loro da manifestazioni, magari relativamente pacifiche, organizzate da altri per accodarsi alle medesime e lanciarsi nelle loro bestiali imprese. Contro di loro la reazione delle forze dell'ordine dovrebbe essere di intensità proporzionata e soprattutto, affinchè ciò possa avvenire, alle stesse dovrebbe essere trasmessa la sensazione di avere alle spalle tutto l'appoggio e la solidarietà possibili da parte del Paese e della magistratura, non quella frustrante delle "mani legate" dovuta all'esistenza di superiori e giudici oggettivamente sempre pronti a dare loro addosso al minimo sospetto di aver trattato quella gentaglia con metà della decisione che essa meriterebbe, e a garantire viceversa ai più pericolosi delinquenti trattamento con i guanti e scarcerazioni facili. E questo, più che un sassolino, mi pareva proprio un macigno da togliere dalla mia numero 42.

A proposito di criminali incensati e di brava gente invece offesa ad opera di alte istituzioni e personalità di stato sedicenti paladine di chissà quali "oppressi", poi, è di questi giorni anche la notizia del rifiuto del presidente del Brasile Lula di estradare in Italia il terrorista rosso pluriassassino Cesare Battisti (ahimè omonimo di uno dei più cristallini eroi della storia della nostra Patria) alla faccia dell'affronto che ciò costituisce per giustizia italiana e parenti delle vittime del figuro.

Lula appartiene, con il venezuelano Chavez, ad una nuova generazione di governanti sudamericani populisti, antiglobalisti, pateticamente abbarbicati all'arcaica concezione che tutto il male venga dall'America e dall'Occidente opulento e che tutto il bene stia dalla parte degli avversari di questi, per quanto discutibili o pericolosi, da cui comportamenti quali l'avvicinarsi a regimi come l'Iran e la protezione accordata al Battisti, appunto perchè terrorista "rosso". L'Italia sta rispondendo con sufficiente compattezza alla sfida, l'ambasciatore in Brasile è stato richiamato, manifestazioni bipartisan sulla questione stanno avendo luogo un po' ovunque. Bisognerebbe intensificare gli sforzi per isolare internazionalmente i responsabili di così gravi iniquità.

Mi tolgo infatti l'ennesimo masso dalla calzatura affermando che nulla avrebbe da perdere il mondo dalla scomparsa dalla scena politica di simili arnesi.

Infine è riemerso prepotentemente il problema dei cristiani perseguitati nel mondo: gente che non chiede altro che la legittima libertà di seguire indisturbata le pratiche dettate dalla propria fede e viene fatta invece letteralmente saltare in aria nelle sue stesse chiese, nei paesi ove la violenza assassina è più brutale, arbitraria e senza controllo, oppure è più subdolamente e meno rumorosamente osteggiata in qualche ultimo baluardo dell'ateismo di stato come la Cina, che tiene a dare di sè un'immagine di ordine interno e di disponibilità all'apertura internazionale, ma non rinuncia a violazioni tanto esplicite dei diritti umani.

In tutti i casi, è necessario che chi di dovere, pur senza sconfinare in comportamenti che ne snaturerebbero il ruolo, faccia sentire la propria voce con la massima chiarezza e decisione possibile, che esiga con ancora più energia (benchè a Benedetto XVI e a buona parte del suo alto clero si debba dare atto di essere meno "mammolette" di certi loro predecessori in passato), dalle autorità dei paesi più direttamente interessati, le misure concrete più idonee a combattere il fenomeno.

Non è possibile rispondere soltanto con richiami alla fraternità universale e pur sacrosante argomentazioni teologiche a chi ragiona soltanto in termini di guerra santa, condotta con le armi, e scambierebbe pertanto tutto questo per segni di debolezza ed implicite rassicurazioni di non incontrare mai reazioni efficaci alle proprie azioni sanguinarie.

Sarebbero ancora tanti i sassi e sassolini da levare dalle scarpe, affinchè si possa veramente camminare comodi per il nuovo anno che ci attende.

Per ragioni di spazio, e di pietà per il lettore, ci siamo limitati a quelli che proprio ci procuravano fastidio intollerabile, se non rimossi.

Anche se in ritardo, buon 2011 a tutti.

Tommaso Pellegrino