sabato 15 novembre 2008

DOBBIAMO TUTTI ESSERE "OBAMACONS"?

L'interminabile maratona delle elezioni presidenziali americane si è alla fine conclusa, giorni fa, con la vittoria nettissima del primo presidente di colore della storia di quella Nazione: il democratico Barack Hussein Obama.
Francamente non ricordavo un simile coinvolgimento emotivo, da parte dei miei connazionali, in nessuno dei precedenti eventi analoghi di cui conservo cosciente memoria. Sarà per la presunta svolta epocale, e comunque per la sicura novità, rappresentata dall'ascesa alla massima carica politica del Pianeta di un afro-americano relativamente giovane e non apparentemente favorito da natali ed estrazione sociale tali da farcelo immaginare come un predestinato a simili alte vette, sarà perchè la recente, graduale e stentata, trasformazione anche del nostro sistema in qualcosa di vagamente simile alla democrazia dell'alternanza bipartitica d'oltreoceano ci ha di fatto reso più familiare ed appassionante questo genere di sfide elettorali all'ultimo voto tra due candidati, portatori di due diverse idee, alla guida di un Paese, sta di fatto che si sono viste per la prima volta, da noi, vere eproprie manifestazioni di tifo organizzato pro-Obama, con tanto di veglie, specie nelle sedi del PD, in attesa del responso delle urne e commozione fino alle lacrime all'annuncio del risultato.
Per quanto mi riguarda, ancorchè notoriamente mi riconosca nella formazione politica che, in ambito italiano, può dirsi l'omologa del Partito Repubblicano USA, ho fatto mio il pensiero espresso dal nostro ministro della Difesa La Russa, secondo il quale lo schierarsi apertamente per l'uno o per l'altro dei due candidati in un un'elezione presidenziale americana (considerarli cioè "come Coppi e Bartali o come Veltroni e Berlusconi") fa tanto "provinciale", e me ne sono rimasto ad assistere all'evento più o meno distaccatamente, ben conscio del fatto che lì, dopo tutto (al di là dell'innegabile influenza che hanno, sul mondo intero, gli orientamenti dell'amministrazione USA), non si stava decidendo chi sarebbe stato il "mio" presidente, e che l'America rappresenta una realtà troppo diversa da quella nostrana perchè le siano applicabili tout court i consueti criteri d'analisi validi per il panorama italiano.
In altri termini, non poteva e non doveva essere così automatico che, soltanto perchè sostenitori del PDL o del PD in Italia, lo si fosse anche, rispettivamente, di John McCain o di Barack Obama in occasione del loro confronto elettorale per la conquista della Casa Bianca.
Oltreoceano, sotto certi aspetti, si vive infatti pressochè in un altro mondo: l'esistenza di un servizio sanitario nazionale simile a quello italiano, per limitarci ad un solo esempio, qui da noi data per scontata anche dal meno progressista e d assistenzialista dei portatori di un'opinione politica, in America è appena appena timidamente propugnata dai democratici più socialmente sensibili, e figuriamoci se sfiora le menti dei più conservatori.
Se dunque, persino negli stessi Stati Uniti, complice forse il non travolgente carisma del pur onesto patriota e vecchio reduce del Vietnam McCain, si è assistito ad una vera e propria massiccia migrazione di ex repubblicani di ferro nel campo del fascinoso candidato democratico di colore - tra i quali l'ex portavoce di Bush Mc-Clellan, l'ex governatore del Massachussets Weld e l'ex segretario di stato Colin Powell, per i quali è già stato coniato il neologismo "obamacons", cioè consevatori per Obama - a maggior ragione sono state numerose anche le personalità di destra o di centro-destra di casa nostra ad esprimere con decisione analoga preferenza: da un Francesco Storace che è andato a scrivere sul suo blog "Obama o morte", a un Paolo Guzzanti che ha ammesso senza problemi che avrebbe votato per il candidato democratico, a un Frattini che ha dichiarato "Sarebbe un ottimo presidente".
Con Barack Obama, certo ha vinto la voglia di cambiamento degli americani, dopo gli otto anni di un'amministrazione repubblicana non proprio priva di ombre, e si è riaffermata con vigore, nel mondo, la migliore immagine tradizionale di un'America dove tutti possono realizzare i loro sogni, per ambiziosi che siano.
Già questi ci sembrano buoni motivi per ritenerci lieti dell'esito elettorale e per guardare con fiducia al futuro.
Su un piano più concreto, il nuovo presidente promette poi di poggiare la propria futura condotta politica su cardini, per fortuna, ben distanti da certe fantasie riguardanti una sua presunta maggiore arrendevolezza o addirittura un suo quasi "pacifismo", nelle questioni internazionali e di lotta al terrorismo, ricamate su di lui da una certa, in questo forse un po' ingenua, sinistra nostrana, la quale è probabile che rimarrà alquanto delusa di fronte a quella che si rivelerà in seguito la realtà dei fatti.
Per fare qualche esempio, Obama è per la pace in Medio Oriente, ma considera prioritaria su ogni altra considerazione la tutela della sicurezza di Israele; non è disposto ad accettare un Iran con l'arma nucleare e non esclude l'uso della forza contro di esso; vuole andarsene gradatamente dall'Irak, ma anche dedicare maggiori attenzioni all'Afghanistan, sia sotto l'aspetto strettamente militare che sotto quello realisticamente diplomatico, ed è sua intenzione di rinforzare sensibilmente il corpo dei Marines.
Tra i maggiori vantaggi che l'elezione di Obama può portare, rispetto a ciò che ci si sarebbe potuto attendere in caso di una vittoria di McCain, ci sono senz'altro una maggior facilità di superamento di contrasti come quello creatosi recentemente con la Russia, sul piano internazionale, e qualche attenzione in più rivolta al sociale e alla sanità pubblica, su quello interno.
La domanda che ci sorge spontanea, in conclusione, è quindi se, anche per chi si considera senza vergogna un conservatore nel contesto politico della nostra Italia, questo progressista americano possa rappresentare l'uomo in cui riporre le migliori speranze di qualche futura schiarita nell'incasinatissimo mondo in cui ci si ritrova a vivere.
Allo stato attuale delle cose, credo che si possa azzardare una risposta positiva al quesito.
Può darsi che gli "obamacons" siano una categoria destinata a crescere anche in Italia.
Tommaso Pellegrino

martedì 28 ottobre 2008

4 NOVEMBRE: FESTA DI TUTTI GLI ITALIANI O SOLTANTO DI QUALCUNO?

Siamo uno strano popolo, forse unico: neppure le feste solenni e le date simboliche che maggiormente rappresentano tappe salienti e drammatiche del nostro cammino, durato oltre un secolo, verso le conquiste dell'unità nazionale, della totale libertà da ogni dominazione straniera e della più piena democrazia riescono ad accomunarci tutti in un sentimento (che dovrebbe collocarsi, una volta tanto, al di sopra delle meschine divisioni politiche) di celebrazione di eventi epocali che hanno cambiato il destino di ogni italiano indistintamente, e di composta riconoscenza nei confronti di quanti, in quelle circostanze, si sono inevitabilmente sacrificati di persona (trattandosi quasi sempre di fatti di sangue).
No: ognuna di queste ricorrenze deve puntualmente divenire occasione di strumentalizzazioni, per i propri fini, da parte di questo o quello schieramento politico, o di reciproche accuse, tra le fazioni, di farne delle feste di parte o di volersene appropriare in maniera esclusiva. Ne sono tipici esempi il 20 settembre, quando, nell'ultimo anniversario della conquista militare della nostra capitale, qualcuno sembra aver dato adito a sospetti di nutrire forse eccessive simpatie per i caduti di parte papalina; o il 25 aprile, che da sempre divide grottescamente gli italiani tra chi lo considera quasi esclusivamente una festa propria e chi invece non lo ritiene neppure una festa.
Ultimo "pomo della discordia" in ordine di tempo è il 4 novembre, anniversario (quest'anno il 90°) della Vittoria italiana sull'Austria-Ungheria nel primo conflitto mondiale, che fra poco si festeggerà con insolita pompa (parate, bande militari, concerto di Andrea Bocelli ecc.) e in occasione del quale il ministro della Difesa La Russa ha deciso di sguinzagliare per tutta Italia ufficiali dell'esercito con il compito di tenere lezioni sulla Prima Guerra Mondiale nelle scuole, venendo così accusato, da stampa ed illustri esponenti per lo più di sinistra, di orchestrare "la più imponente manifetazione di propaganda militare che l'Italia repubblicana abbia mai messo in piedi", anzi: di rischiare di fare apparire le forze armate uno strumento di parte "al servizio di propaganda politica".
In effetti, l'esperienza della partecipazione italiana alla Prima Guerra Mondiale, benchè altissima espressione di strenua lotta patriottica per la liberazione di una grossa fetta del Paese da una dominazione straniera tirannica, ha più di una carta in regola per risultare invisa alla sinistra odierna: intanto, trattasi di una guerra "classica", simmetrica, combattuta tra nazioni (per lo pù monarchie) mandando purtroppo a farsi macellare al fronte moltitudini di coscritti arruolati in eserciti regolari, e non - diversamente, ad esempio, dalla Resistenza- di un'epopea bellica nata da un impulso di ribellione dal basso, meglio ancora se condita da velleità rivoluzionarie proletarie, di quelle guerre, insomma, che, pur sanguinosissime e con punte di crudeltà spesso sconosciute alle altre, ai nostri sinistrorsi, sempre "pacifisti", non dimentichiamolo, nel solo senso che interessa a loro, non sono mai affatto dispiaciute. In secondo luogo, ad essere contrarie all'intervento nel conflitto '15-18 furono principalmente appunto le sinistre "ufficiali" dell'epoca, mentre i favorevoli a quell'avventura, o almeno i più visibili e chiassosi tra essi, furono invece proprio quei simpaticoni di varia appartenenza ideologica e sociale che, qualche anno dopo, avrebbero trovato una casa comune nel vituperato fascismo, e quegli intellettuali alla Papini che soffiarono sul fuoco con scritti del genere di "Amiamo la guerra!".
Altri elementi sono poi stati portati a sostegno dei propri punti di vista, nel dibattito scaturito negli ultimi giorni sull'argomento, da quegli autorevoli personaggi partcolarmente perplessi sull'opportunità di celebrare il 4 novembre nelle modalità decise, per quest'anno, dal governo: dall'inettitudine ed insensibilità dimostrate da comandanti come Cadorna nel mandare al macello una generazione in ripetuti, inutili e fallimentari attacchi sull'Isonzo, all'orrore delle decimazioni, alla dichiarazione di guerra all'Austria che sarebbe stata un deplorevole atto di "aggressione", non dettato da esigenze di difesa e, per di più, perpetrato contro il volere del Parlamento.
Di tutto questo campionario di osservazioni in negativo, qualcosa è inconfutabile, come la stoltezza e la mancanza di considerazione per la vita umana propria della strategia cadorniana o il fatto delle decimazioni, che effettivamente ci furono, sebbene, sotto detti punti di vista, noi italiani non costituivamo certo un'eccezione, nel panorama di tutti gli eserciti allora impegnati nell'"inutile strage". Su altre asserzioni è invece doveroso controbattere. E'ben vero, ad esempio, che, tra Italia ed Austria, quella che dichiarò per prima guerra all'altra fu l'Italia, ma è anche vero che, quando ciò accadde, era già in corso una guerra delle democrazie occidentali, più la Russia, contro gli Imperi Centrali, innescata proprio dall'attacco mosso dall'Austria alla Serbia quasi un anno addietro, in seguito all'attentato di Sarajevo. In base alla stessa logica, dovremmo allora considerare atti di aggressione anche i nostri recenti interventi armati in Irak (1991) e Serbia, in quanto Saddam Hussein e Milosevic non attaccarono certo per primi l'Italia, ma, rispettivamente, il Kuwait e il Kosovo, provocando reazioni internazionali cui si ritenne doveroso partecipare.
L'intervento nel conflitto europeo poteva apparire, anche ad esponenti di equilibrio e moralità indubitabili, come un'occasione irripetibile per chiudere definitivamente la partita con il grande nemico storico (malgrado l'alleanza senza amore che durava ormai da trent'anni con esso) e completare così il processo risorgimentale; una linea forse ritenibile più efficace di quella, suggerita da Giolitti, di barattare concessioni territoriali con il mantenimento della nostra neutralità.
Ad aderire all'interventismo non furono infatti soltanto futuri fascisti, esaltati nazionalisti o intellettuali in preda a "vergognoso bellicismo", come lo definisce Angelo D'Orsi, alla Papini (le cui performances letterarie di allora non andrebbero comunque giudicate con i criteri odierni), ma anche sinceri democratici come Bissolati e Salvemini, future vittime del fascismo come Giovanni Amendola, Antonio Gramsci e Carlo Rosselli, e persino quello stesso Ungaretti che proprio il quotidiano della sinistra radicale "Liberazione" invita a leggere, come antidoto al presunto clima di esaltazione bellica, anzichè celebrare il 4 novembre.
Quanto al voto favorevole all'entrata in guerra da parte del Parlamento, infine, questo formalmente ci fu, anche se la maggioranza dei parlamentari in carica era in origine contraria ed il loro cambio di orientamento fu non poco forzato dalla virulenza delle manifestazioni di piazza pro intervento e dal clima di inevitabilità della grande prova internazionale venutosi a creare.
Fatte queste precisazioni, sia scolpito a chiare lettere, scopo degli eventi celebrativi collegati a questo 90° anniversario della Vittoria del 1918 non è quello di promuovere una propaganda militarista che esalti il ricorso alla guerra e neghi le tragedie, le negligenze e perfino i crimini che caratterizzarono tanti aspetti della conduzione di quella che passò alla Storia come la Grande Guerra.
Occorre invece che tutti gli italiani, e specie le generazioni più giovani, abbiano coscienza dell'evento colossale in grado di amalgamare per la prima volta tutti gli italiani delle più disparate provenienze regionali e sociali in uno sforzo eroico che - specie nell'ultima fase della guerra, con una fetta considerevole di territorio nazionale invasa dal nemico e quindi con la nascita di nuove spinte motivazionali e l'attenuazione delle divergenze di vedute sul conflitto tra connazionali - li fece sentire veramente una nazione e portò ad una liberazione dallo straniero in tutto paragonabile a quella che sarebbe poi avvenuta nel 1945.
Questa consapevolezza dev'essere patrimonio di tutti noi, e i ricordi commossi di enrtrambi questi eventi tanto decisivi della nostra Storia non possono essere appannaggio di una sola parte e divenire fattori più di divisione che non di unione.
Dio ci salvi dall'avere un 25 aprile festa della sinistra ed un 4 novembre festa della destra.
Tommaso Pellegrino

sabato 13 settembre 2008

QUEL PASSATO CHE NON VUOLE PASSARE...

Sono ormai trascorsi più di sessant'anni dai fatti in questione, cioè dagli eventi che hanno diviso gli italiani tra i due schieramenti contrapposti nella più cruenta guerra civile della loro storia recente, e ancora non si è giunti ad un'autentica rappacificazione nazionale basata sul pieno riconoscimento, da parte di tutti, di valori indiscutibili e condivisi, dai quali partire per andare avanti, e sulla consegna definitiva alla Storia di quei tragici eventi passati; consegna alla Storia che, chiaramente, non può inendersi come archiviazione nel dimenticatoio degli avvenimenti stessi o come un impossibile, e neppure auspicabile, "embrassons nous" generale suggellante l'equiparazione tra loro di tutte le scelte di campo operate allora, valutando con il solo criterio della "buona fede" di chi le fece, ma che, al contrario, deve fondarsi sulla finalmente chiara, netta e definitiva pubblica ammissione da parte di tutti che una sola delle due cause in gioco nel '43-45 fu quella giusta, a prescindere dai singoli episodi di comportamento eroico o di condotta infame registrati da una parte come dall'altra, e sul conseguente abbandono dell'odiosa abitudine a strumentalizzare meschinamente, per i propri fini politici contingenti, ogni più piccola frase pronunciata dall'avversario, su tali argomenti, che si presti allo scopo, come appunto accaduto con le dichiarazioni di Alemanno e La Russa in occasione delle recenti rievocazioni dell'8 settembre e dei primi atti della Resistenza.
Le pretese, avanzate in passato, e parzialmente ancora oggi, da una certa estrema destra, di collocare sullo stesso piano la scelta fatta da chi, nel 1943 ed oltre, si schierò a favore del ristabilimento della libertà e della democrazia, in via di inevitabile affermazione sull'onda dell'ormai scontato esito degli eventi bellici, e quella propria di quanti invece perseverarono nella guerra ormai irrimediabilmente perduta, ma combattuta nel campo delle forze della barbarie, con la sola giustificazione della "buona fede" che avrebbe animato questi ultimi, non possono trovare accoglimento.
La buona o cattiva fede ispiratrice di ognuno, o le circostanze fortuite per le quali in molti si ritrovarono tra le file "repubblichine", dovrebbero essere valutate caso per caso e senz'altro ci indurrebbero a provare profondi sentimenti di rispetto per parecchi di questi combattenti individualmente considerati, ma non possono pesare sul giudizio complessivo di totale negatività della causa per la quale essi, pure talvolta eroicamente, si batterono: una causa il cui trionfo avrebbe significato la vittoria della più brutale violenza, dell'oppressione, dell'intolleranza.
Ora, un dato di fatto è che chi detiene in questo momento la responsabilità del governo del nostro Paese, ancorchè "di destra", questi concetti sembra averli, grazie a Dio, assimilati perfettamente: il ministro della Difesa, ad esempio, nel suo discorso per commemorare gli eventi di Porta San Paolo ha inequivocabilmente lodato quel primo atto resistenziale ed esaltato quanti, in generale, hanno ridato libertà e democrazia all'Italia. Il cosiddetto "omaggio" da lui rivolto al mirabile comportamento sul campo di un reparto schierato "dalla parte sbagliata" rientra semplicemente tra quei riconoscimenti di singoli atti di valore che onestamente sono dovuti, ma che non implicano nessun mutamento di giudizio sulla causa "politica" al servizio della quale quegli uomini si battevano.
Pertanto, la polemica innescata dalla solita nostra bella sinistra su quelle poche parole pronunciate quasi in un inciso ci pare ancora una volta del tutto sterile e pretestuosa; tanto più se si tiene conto, ad esempio, che fu proprio un alto esponente di quello stesso versante politico, Violante, a lanciare anni fa un ben più clamoroso invito ad essere comprensivi verso la scelta fatta dai giovani combattenti di Salò, non riscuotendo altro, allora, che calorosi applausi bipartisan.
Se davvero , a questi signori, si volesse rendere pan per focaccia, non ci si metterebbe molto a rinfacciare loro i fini rivoluzionari - e quindi miranti non a restaurare in Italia la democrazia liberale, bensì ad impiantarvi un regime di tipo sovietico - propri delle ali più estremiste dello schieramento resistenziale di sessant'anni fa, ogni volta che oggi gli eredi di queste pretendono di incarnare la parte maggioritaria e migliore dei quei combattenti per la libertà, quasi negando agli altri il diritto di condividere celebrazioni che dovrebbero in realtà appartenere a tutti gli italiani, come quelle del 25 aprile.
Ma non ci pare il caso di farlo, in quanto ci rendiamo perfettamente conto di quanto quelle realtà siano ormai cose totalmente estranee anche ai più diretti dei loro lontani discendenti del 2008.
Concludendo, infatti, per una vera rappacificazione nazionale, perchè davvero passi quel passato che non sembra volerlo fare, non occorre certo dimenticare la Storia, maestra di vita, nè tantomeno assolversi reciprocamente da ogni responsabilità, ma si deve serenamente accettare che si tratta di un capitolo completamente diverso dalle vicende attuali, con le quali non deve continuamente mescolarsi.
Tommaso Pellegrino

sabato 12 luglio 2008

I COMICI CHE NON FANNO PIU' RIDERE NON DEVONO ESSERE I PADRONI DELLA SCENA

Con l'ultimo post pubblicato su questo blog, risalente ormai a quasi due mesi fa, ci eravamo lasciati in una situazione che sembrava preludere all'instaurarsi di un clima politico finalmente soddisfacente, o quanto meno da paese "normale", in un'Italia fino ad allora travagliata (l'assonanza di questa parola con il cognome di uno dei massimi animatori delle più squallide esibizioni, di piazza e non di piazza, da sempre miranti a mantenere il livello del confronto tra le parti politiche nazionali il più possibile lontano dai canoni di civiltà e rispetto reciproco auspicabili in ogni paese, è puramente voluta) da una contrapposizione quasi violenta tra i due schieramenti del precedente imperfetto bipolarismo, dall'eccessiva eterogeneità e numerosità dei partitini che componevano i medesimi ed alla presenza al loro interno di flange estremiste che rendevano difficile l'assunzione di posizioni comuni e quindi l'azione di governo.
Con l'avvento dell'attuale esecutivo targato centro-destra, sostenuto da una maggioranza parlamentare più che solida, una nuova epoca sembrava infatti sul punto di inaugurarsi: blocchi di maggioranza e di opposizione finalmente sufficientemente omogenei, estromissione dalle Camere delle formazioni estremiste di entrambi i versanti, quasi un bipartitismo con non più di un paio di gruppi parlamentari per parte, definizione di ruoli chiari e distinti e perciò niente "inciuci", certo, ma anche niente avversione pregiudiziale e buoni propositi di disponibilità al dialogo e alla collaborazione "bipartisan" laddove possibile ed auspicabile.
Appunto a quasi due mesi da quell'esordio, non si può fare a meno di notare quanto il quadro idilliaco appena descritto appaia, purtroppo, non poco deturpato.
La squadra Berlusconi non ha perso tempo ad avviare i programmi per i quali gli italiani le avevano affidato il timone del Paese, e lo ha fatto con una determinazione alla quale non si era più abituati e che ha offerto inevitabilmente il destro agli attacchi strumentali di coloro che, quando si trovavano essi stessi al governo, si trovarono impossibilitati ad operare con analoga incisività a causa della debolezza della loro maggioranza e delle divisioni interne.
Così, ecco che norme istituite a tutela di minori nomadi ridotti peggio che in schiavitù dagli adulti del loro stesso popolo sono diventate "razziste"; altre, che istituiscono una immunità per i massimi vertici dello Stato (immunità prevista anche in altri paesi civili a tutela anche dello stesso diritto degli elettori di essere governati da chi hanno votato) sono state bollate come "ad personam" nell'esclusivo interesse del premier; persino provvedimenti a favore delle classi meno abbienti come l'abolizione dell'ICI prima casa, la Robin Tax e la "card" per anziani sarebbero bazzecole di pochissimo conto, quando non misure dannose o addirittura umilianti, e avanti di questo passo.
Nel campo dell'opposizione, rispetto a quanto sembrava profilarsi due mesi fa, la degenerazione della situazione è stata paurosa.
Per le ultime elezioni, il buon Veltroni aveva lasciato a piedi quello che, al confronto, può ritenersi un perfetto gentiluomo come il socialista Boselli, solo perchè questi non voleva saperne di integrarsi totalmente nel PD, ed aveva invece imbarcato il più illiberale, forcaiolo ed antigarantista ex magistrato della storia patria, siccome questi aveva finto di accettare la condizione di entrare, dopo, in un unico gruppo parlamentare con il Walter nazionale. Poi, l'ex magistrato forcaiolo il gruppo parlamentare unico si è guardato bene dal farlo e si è buttato a pesce, anzi, a riempire il vuoto lasciato dalla scomparsa dal Parlamento della sinistra radicale, quale alimentatore del vecchio, perfido odio antiberlusconiano pregiudiziale, che si pensava pressochè archiviato all'atto del varo del nuovo governo. E' di questi giorni la rottura forse definitiva dell'ex magistrato forcaiolo con Veltroni, il quale, nella praticabilità di un'opposizione civile, probabilmente crede ancora e gli ha imposto l'aut-aut: o con me, o con qei nuovi compagni di strada che ti sei scelto.
Già, perchè il nostro ha scelto di affiancarsi, nella sua lotta anti-cavaliere, ai patetici ex comici e tristi figuri vari che, nel corso della manifestazione romana di pochi giorni fa, hanno dato il peggior spettacolo di inciviltà e di volgarità che potessero dare, con tanto di offese inaccettabili dirette al Papa, al Presidente della Repubblica e a chi più ne ha ne metta, al punto da indignare non solo il capo dell'opposizione più istituzionale, Veltroni, ma persino molti degli stessi esponenti dell'ultrasinistra recentemente uscita dal Parlamento e di altri antiberlusconiani di ferro come il regista Nanni Moretti, che Dio non voglia dovessimo, di questo passo, finire per rimpiangere.
Per comportamenti di questo genere non ci dev'essere indulgenza. Per l'inciviltà e l'intolleranza, niente tolleranza. Quei comici che non fanno più ridere non devono essere i padroni della scena. Fare satira è un diritto e fa ridere, ma la loro non è più satira.
Sotto le luci della ribalta deve tornare lo spettacolo di una politica sana e seria, di governo e di opposizione.
Tommaso Pellegrino

sabato 24 maggio 2008

CAMPA' IN UN PAESE NORMALE? ORA (FORSE) SE PO' FA'.

Sembra che, finalmente, la nostra Italia abbia ora l'occasione per avviarsi piano piano sulla strada per diventare quello che si può definire semplicemente un Paese normale, il che vale a dire nulla di speciale o di eccezionale, anzi, qualcosa di cui è piena l'Europa ed il resto del mondo civilizzato, ma anche qualcosa che, per noi, rappresenta già un enorme passo avanti rispetto a quello che siamo stati sino a pochissimo tempo fa. Dov'era, infatti, la normalità in un sistema nel quale, ad ogni cambio di colore politico della maggioranza, la prima preoccupazione dei nuovi padroni del vapore era quella di smantellare il più possibile del lavoro fatto dai predecessori? In una situazione che vedeva i governi paralizzati più dai capricci delle flange meno responsabili interne alle proprie eterogenee coalizioni di riferimento che non dall'opposizione vera e propria? In un'impotenza ad intervenire efficacemente su problemi quali i rifiuti della Campania o i pericoli e disagi connessi all'immigrazione incontrollata e clandestina, tanto da lasciarli scivolare fino a livelli di gravità inconcepibili in qualsiasi parte del mondo civile, e in tante, tante altre piacevolezze che ci hanno cullato in tutti questi anni che ci è piaciuto definire "di transizione", pur senza sapere bene di che transizione si trattasse e verso che cosa?
L'ovvia risposta è che, in tutto questo, non c'era proprio traccia di normalità.
Ora invece, scomparso finalmente il governo più pazzo del mondo, che non ha rinunciato ad elargirci le nefandezze più impensabili sino ache ha avuto un alito di vita (l'ultima quella dei redditi degli italiani sbattuti sul web, alla mercè di chiunque sul pianeta volese servirsene per fini leciti e non), e con l'avvento del nuovo esecutivo, sin dalle sedute parlamentari per la fiducia qualcosa sembra essere cambiato.
Favorito anche dalla mancata elezione in Parlamento di elementi radicali di entrambe le sponde, nelle aule dove si decideva la fiducia si è subito stabilito un inedito clima di serietà e serenità nei rapporti maggioranza-opposizione, di intenzione di entrambe a giocare i propri ruoli senza pregiudizi, e dialogando e venendosi anche incontro dove ciò è possibile ed auspicabile: Berlusconi ha lanciato lì, non senza bonaria presa in giro del motto sbandierato da Veltroni per tutta la campagna elettorale, la battuta in romanesco "Se po' fa'"; non sono mancati neppure degli applausi bipartisan, così come non è mancato qualche squallido rigurgito dei vecchi toni di contrapposizione violenta e pregiudiziale, già all'interno del Parlamento durante la seduta stessa (Di Pietro) e, successivamente, fuori dalle aule (Travaglio), ma, nel complesso, il nuovo stile instauratosi nei rapporti tra i due schieramenti pare evidentissimo, il rispetto reciproco è fuori discussione e l'opposizione ha creato un "governo ombra", com'è nella migliore tradizione anglosassone, che sembra avere iniziato a svolgere il suo compito seriamente.
Qualcuno dirà che, così, la politica è diventata piatta, che, essendo ormai rappresentati in Parlamento quasi soltanto i due maggiori partiti, già "accusati" in campagna elettorale di avere programmi molto simili tra loro, è praticamente venuta a mancare una vera opposizione. Invece, è questo il panorama politico di un Paese finalmente normale: quelle che oggi mancano, e delle quali non si ha alcuna nostalgia, sono in realtà soltanto le chiassate delle forze della contrapposizione a tutto e a tutti per partito preso, dell'odio fine a sè stesso verso l'avversario, dell'impedimento ad un'efficace opera di governo, ma l'opposizione, quella vera, c'è da giurare che, quando sarà il momento, si farà sentire eccome, ed il governo la starà ad ascoltare, com'è giusto che sia in ogni autentica democrazia che si rispetti.
A Napoli si sono già senz'altro viste importanti conseguenze della svolta avvenuta: "monnezza" campana e disastri dell'immigrazione selvaggia sembrano sul punto di venire affrontati con determinazione, mezzi ed energia prima impensabili.
Il governo appare efficiente, coeso al proprio interno e volitivo; l'opposizione si direbbe sufficientemente "collaborativa", composta ormai da persone responsabili, realisticamente coscienti che la risoluzione di problemi tanto macroscopici non può non anteporsi a qualsiasi logica di contrapposizione pregiudiziale o ideologica tra fazioni.
Vivere dunque in un Paese normale, potendo contare su una dirigenza rinnovata che consideri un punto di partenza, e non di arrivo, l'insediamento al governo dopo essere stata eletta dai cittadini, e che quindi si rimbocchi sul serio le maniche per ricercare immediatamente soluzioni che non possono più aspettare, una dirigenza controllata, ma non sabotata, da un'opposizione intelligente e costruttiva, forse, per gli italiani, oggi "se po' fa'".
Tommaso Pellegrino

mercoledì 16 aprile 2008

SI RIMONTA IN SELLA!

E' fatta. Dopo una parentesi di un paio di anni decisamente da dimenticare, le urne aperte domenica e lunedi hanno sancito chiarissimamente, in barba a coloro che hanno agitato lo spettro di nuovi scenari di esiti elettorali ambigui e di conseguente ingovernabilità o difficile governabilità dell'Italia, il ritorno alla guida del Paese di un Capo di governo e di uno schieramento politico che gli italiani hanno già avuto modo di ben conoscere e dei quali probabilmente, visto il loro inequivocabile verdetto, non conservavano poi un ricordo così orrendo come tutte le parti a ciò interessate hanno tentato in tutti i modi di farci credere; un Capo di governo ed uno schieramento in grado ora di riprendere il lavoro da dove la fine della legislatura che li ebbe per protagonisti e l'avvento della calamità prodiana l'avevano interrotto, seppure in un contesto profondamente cambiato, rispetto ad allora, e con nuove e difficili sfide da raccogliere.
Il temutissimo "pareggio" dovuto alle magagne della legge elettorale vigente, con mancanza di una maggioranza chiara specie in Senato e, sullo sfondo, i fantasmi di impresentabili "inciuci" o di scene di panico per non sapere bene che pesce pigliare, è dunque stato scongiurato: la vittoria della parte vincente è stata nettissima e si è affermato un sostanziale bipartitismo che avvicina il nostro sistema a quello delle più evolute democrazie occidentali. Insomma, il tanto demonizzato "Porcellum" (comunque da rivedere almeno sotto certi aspetti), applicato nel giusto modo, ha funzionato bene; chissà cosa sarebbe invece avvenuto se si fosse proceduto, a suo tempo, al varo di un governo provvisorio presieduto da Marini o da altri, e all'emanazione di una qualche nuova legge elettorale.
La novità "rivoluzionaria" più evidente è senza dubbio quella della semplificazione a dir poco drastica del quadro politico e del ventaglio dei partiti rappresentati in Parlamento, con la nascita di un bipolarismo rafforzato e caratterizzato dalla scomparsa delle vecchie mega-coalizioni con dentro tutto e il contrario di tutto, rimpiazzate da due nuovi schieramenti composti ciascuno da pochissimi elementi legati tra loro da solidissime intese, ormai pressochè due superpartiti, per di più capaci da soli di coprire la quasi totalità dei seggi disponibili nelle due camere, essendo state gran parte delle formazioni esterne a questi due blocchi tagliate fuori dalle soglie di sbarramento previste dalla legge elettorale, con il risultato di ritrovarci, a conti fatti, con quattro o cinque gruppi parlamentari in luogo degli oltre venti della legislatura appena conclusasi.
Riteniamo che, a determinare tale esito, sia stato soprattutto il comportamento cosciente e logico da parte di un elettorato forse più maturo di quanto non abbiano immaginato gli stessi politici (i quali non hanno mai smesso di insistere sulla necessità del cosiddetto "voto utile", cioè dato a chi ha concrete possibilità di vittoria) e meno soggetto alle tentazioni dell'anti-politica e del voto "di protesta", dato a chi si sa benissimo che non può farsene nulla. E' infatti chiaro che, in un sistema basato su un premio di maggioranza, tale da consentire di governare, attribuito a chi ottiene più voti, e con soglia di sbarramento anti "nanetti", ad avere possibilità di successo sono soltanto quei grandi partiti o poli nei quali possano riconoscersi le più ampie fasce possibili dell'elettorato, nella stragrande maggioranza composto da persone moderate tendenzialmente orientate o verso destra o verso sinistra, per cui non potrà mai raggiungere i numeri sufficienti chi rappresenta invece posizioni ideologiche più estreme o anche se ne sta insipadamente collocato al centro-centro.
E' così successo che sono rimaste totalmente escluse dal nuovo Parlamento, insieme alle mille listarelle rappresentanti il nulla assoluto che affollavano con i loro improbabili simboli le nostre schede elettorali (una delle quali, piange il cuore nel constatarlo, si chiamava "Partito Liberale"), persino formazioni che avrebbero forse meritato una sorte un po' meno infausta, come una sinistra radicale "Arcobaleno" o una Destra di Storace-Santanchè, entrambe finite male perchè scese in lizza, questa volta, "da sole" e non più inglobate in grandi coalizioni-carrozzone come nelle consultazioni precedenti.
Costoro saranno sempre in tempo per prendere coscienza degli errori fatti e dei cambiamenti sopravvenuti nel panorama politico nazionale, e quindi per ritornare in un prossimo futuro alla vita parlamentare come portabandiera, dall'interno dei partiti maggiori, delle lotte nel nome dei valori molto particolari in cui credono. In caso contrario, se non potranno o vorranno fare ciò, potrà anche dispiacere un po' a tutti per la perdita di quelli che possono, nonostante tutto, considerarsi dei contributi di pensiero preziosi, ancorchè al di fuori degli schemi più ortodossi, nelle altrimenti un po' "sorde e grige" aule di Camera e Senato, ma rimane il fatto che lo scopo del meccanismo di una moderna democrazia dell'alternanza bipolare o bipartitica non è quello di garantire una rappresentanza parlamentare ad ogni costo, anche a chi rimane incapace di integrarsi nelle formazioni politiche mature per assumersi responsabilità di governo, bensì quello di creare le migliori condizioni per la governabilità e di rimuovere ciò che sarebbe d'ostacolo per la stessa.
Ora che il Cavaliere rimonterà in sella in simili inedite condizioni favorevoli di sicurezza della propria magioranza (sia in termini di numeri che di compattezza della coalizione), di semplificazione del quadro politico e di rinnovato prestigio, potranno finalmente essere affrontati, con serenità ed energia sconosciute al precedente governo, i non pochi problemi in cui si dibatte il nostro povero Paese.
Da parte nostra, continueremo a sostenerlo come potremo e gli auguriamo sin da ora buon lavoro.
Tommaso Pellegrino

mercoledì 5 marzo 2008

TRA ELEZIONI PRESIDENZIALI AMERICANE E RUSSE, LA SCOMMESSA ITALIANA

Voilà, i giochi si direbbero ormai fatti. Mentre il mondo assiste, da un lato, alla lunga, e per noi non sempre facilmente comprensibile, maratona elettorale preparatoria di quella che sarà poi la vera e propria sfida finale per arrivare a sedersi sulla poltrona di presidente degli Stati Uniti, e, dall'altro, al viceversa rapidssimo consumarsi di ciò che ha avuto tutta l'aria di essere soltanto un semplice rito volto a conferire il formale sigillo di investitura popolare ad un'elezione presidenziale russa in realtà già del tutto scontata nel suo esito, in un ambiente politico obiettivamente ancora molto da perfezionare in fatto di vera democraticità, anche in Italia parrebbero a questo punto defintivamente disegnate le formazioni destinate ad affrontarsi, fra non molto, nella prova elettorale che dovrebbe inaugurare, dopo le non entusiasmanti esperienze del recente passato, una nuova fase nella vita politica nazionale, caratterizzata da un importante passo in avanti sulla strada della costruzione di una vera democrazia dell'alternanza al potere tra due principali proposte alternative: il passaggio dall'epoca delle grandi coalizioni contrapposte, troppo spesso oltremodo eterogenee, a quella dei grandi partiti, per il fatto stesso di essere tali, almeno in teoria, notevolmente più compatti ed affidabili.
Avevamo, su questo stesso blog, accolto con favore (e una punta d'invidia per essere state loro, e non noi, a raggiungere per prime tale risultato) la fusione delle due principali componenti del vecchio centro-sinistra nel nuovo Partito Democratico; poi, dopo un po' di tempo, chiarita qualche passeggera incomprensione nel centro-destra, qualcosa di analogo è successo anche da quella parte della barricata, con la nascita del Popolo della Libertà, non ancora un vero e proprio partito, bisogna ammetterlo, ma comunque un nuovo soggetto politico con tutte le carte in regola per diventarlo al più presto, a partire dalla presentazione alle elezioni di tutti i componenti sotto uno stesso simbolo e con un unico programma e dall'impegno a formare poi un unico gruppo parlamentare nella prossima legislatura.
Presentandosi di fronte agli elettori "da solo" o quasi, vale a dire senza le zavorre, alla propria sinistra, dei massimalisti rossi e, alla propria destra, dei soliti partitucoli e personaggi banderuola centristi (quelli, per intenderci, famosi per non aver quasi mai partecipato a due elezioni di seguito nello stesso campo), il PD ha scelto la via della proposta chiara di una compagine unita nell'adesione ad un programma e matura per governare un Paese occidentale dei nostri giorni, se (speriamo comunque di no) dovesse risultare trionfatrice. In altre parole bisogna riconoscere che, tagliati finalmente i ponti con i compari di chi gridava in piazza "10-100-1.000 Nassirya" ed era causa di infinito imbarazzo internazionale per l'Italia oltre che della letterale impossibilità di governare passabilmente per il governo Prodi, la squadra veltroniana appare davvero come qualcosa di finalmente paragonabile all'omonimo partito statunitense o al partito laburista britannico, cioè come quel genere di centro-sinistra che non potrà ovviamente rappresentare la nostra forza politica di appartenenza, ma la cui esistenza e buona salute noi riteniamo indispensabili per il funzionamento della democrazia quale la intendiamo: veri avversari politici in un contesto di competzione democratica, con i quali siano concepibili anche eventuali dialoghi costruttivi (mai inciuci!), e non quasi nemici in una guerra civile.
Sul versante opposto, il PDL si è analogamente scrollato di torno inopportuni ed imbarazzanti ex compagni di strada delle frange estreme della destra anti-sistema, e chi non ha ancora semplicemente voluto capire o accettare che questa non può più essere l'epoca delle vecchie alleanze, bensì dei grandi partiti, che bisogna ormai imbarcare nel progetto comune da presentare agli elettori soltanto chi se la sente di impegnarsi in esso al punto da rinunciare a propri simboli e liste (solo riguardo alla Lega Nord può essere giustificato, almeno per ora, un discorso a parte). Come si è già affermato altrove, il fatto di integrarsi in un partito è di per sè garanzia di adesione ben più convinta ed irreversibile ad un programma che non il semplice ammucchiarsi in una coalizione all'occorrenza abbandonabile senza troppi traumi. Si è da più parti insinuato che il PDL sia diventato un partito di destra, e non più di centro-destra, per essersi rifiutato di apparentarsi con la casiniana UDC: in realtà, in esso, la componente maggioritaria rimane Forza Italia, che è squisitamente di centro-destra, mentre proprio quel movimento di recente formazione che pretenderebbe di incarnare "la Destra" più genuina ne è rimasto coerentemente fuori. Respingedo l'UDC, si è semplicemente detto di no ad una piccola forza rivelatasi non ancora rassegnata all'ineluttabilità della nuova tendenza imboccata dalla politica italiana, tuttora abbarbicata all'idea di un "centro" non tenuto alla scelta di campo coerente e definitiva in un panorama bipolare, una piccola forza che sta ora dimostrando appieno quanto labile fosse ormai diventata la sua adesione a valori e programmi del centro-destra (e quindi quanto poco ci abbia, alla fin della fiera, rimesso lo stesso PDL a non avercela in squadra), riversando sugli ex compagni di strada, e di cinque anni di governo, giudizi che sembrerebbero uscire dalla bocca di acerrimi avversari di sempre, più che da quella di aspiranti alleati di appena qualche giorno prima.
Un sistema politico funzionante basato sul confronto tra grossi partiti che si presentano agli elettori con programmi chiari, credibilità e concreta possibilità di guidare il Paese, qualora baciati dal successo alle urne, in luogo delle vecchie armate brancaleone messe insieme al solo scopo di battere un avversario opportunamente demonizzato, e poi incapaci di una qualsiasi linea di governo efficace, coerente e costruttiva: è dunque questa la grande scommessa che l'Italia deve vincere per il futuro.
Qualcuno ha obiettato ed obietta che un tale stato di cose non rientrerebbe nelle tradizioni del nostro Paese, che, se esso è naturale per il mondo anglosassone, da queste parti abbiamo una storia diversa. Noi rispondiamo che, se la posta in gioco è cercare di migliorare per quanto possibile un sistema che, così com'era, si poteva dire giunto alla frutta, vale la pena anche di fare tesoro dell'esperienza altrui, natualmente senza prescindere dagli indispensabili adattamenti da applicare ad ogni situazione concreta nazionale.
In questo periodo, con sotto gli occhi gli esempi di elezioni nei maggiori stati del mondo, non mancano gli spunti di riflessione per farsi un'idea di quale possa essere il più idoneo.
Tommaso Pellegrino

giovedì 31 gennaio 2008

L' INGLORIOSO "25 LUGLIO" DI ROMANO PRODI E LA NECESSITA' DI VOLTARE PER DAVVERO PAGINA IN ITALIA

"Dagli e dagli" o "Tanto tuonò che piovve", si potrebbe commentare. Fatto sta che il deleterio governo Prodi, già nato su una maggioranza che definire "risicata" suona un complimento, e poi più volte a rischio di cappottata specie sui più spinosi temi di politica estera, causa certe sue componenti radicali chiaramente non ancora mature per gestire razionalmente le più delicate situazioni politico-militari che il complicato scenario internazionale odierno impone, dopo quasi due anni di "potere" è caduto.
Si tratta di quello che era praticamente scontato che, prima o poi, avvenisse, ma è significativo che questa crisi non sia arrivata, alla fine, dalle summenzionate frange più estreme della coalizione di governo, bensì proprio da "moderati" per antonomasia della stoffa di Mastella, Dini e Fisichella, cioè da quelle forze relativamente alle quali meno si può parlare di eccessiva "disomogeneità" rispetto alla componente dominante di centro-sinistra dell'ex maggioranza (oggi P.D.) per spiegarne il clamooso gesto di rottura, di quegli elementi, tanto per intenderci, che mai avevano fatto temere di costituire un pericolo per la tenuta del governo quando si era trattato, ad esempio, di sostenere le missioni militari all'estero e in tutte le passate situazioni di forte rischio di caduta per l'esecutivo Prodi.
Tale apparente "anomalia" nell'accaduto può forse facilmente spiegarsi con il fatto che personaggi come i promotori della presente crisi si collocano in quella sorta di area di confine tra i due schieramenti del nostro sistema politico imperfettamente bipolare, dalla quale rimane tutto sommato più agevole il passaggio disinvolto da una parte all'altra di detto poroso confine a seconda dell'opportunità del momento (nè, del resto, i signori in questione sono nuovi a simili esperienze, avendo già tutti in passato militato nel centro-destra), mentre invece, per aree come la sinistra antagonista, ben difficilmente potrebbero schiudersi possibilità di governare al di fuori di una coalizione come quella appena andata in pezzi, sicchè è comprensibile il loro pensarci non dieci, ma cento volte, al di là dell'abbaiare di rito, prima di compiere irreparabili mosse autodistruttive. E' comunque un dato di fatto che il 24 gennaio di Prodi assume sinistramente i connotati di un 25 luglio '43 di mussoliniana memoria, con il Capo del Governo che vuole a tutti i costi andare incontro al giudizio del suo "Gran Consiglio", ben sapendo che questo gli sarà fatale, e si fa sfiduciare proprio dagli accoliti dai quali meno ci si poteva aspettare la pugnalata mortale; se poi si aggiungono i brindisi e le plateali manifestazioni di giubilo per la caduta del "tiranno", quali non se ne ricordavano da chissà quando, il quadro delle analogie è ancora più completo.
Premesso che, a cose fatte, la gioia per la caduta di uno dei peggiori governi della storia della Repubblica - il governo delle tasse, delle figuracce con l'estero, dell'emergenza sicurezza ecc. - non può dirsi che pienamente condivisibile, si deve tuttavia anche ammettere che a tale soddisfazione si acompagna una punta di amarezza per il modo in cui questa "liberazione" è stata conseguita e, soprattutto, per il patetico spettacolo dei tentativi di riattaccare con lo sputo i cocci di un giocattolo ormai irrimediabilmente rotto - o, peggio, di dar vita a qualcosa d'altro di assolutamente estraneo a qualsiasi volontà mai espressa dagli elettori - cui l'attribuzione al Presidente del Senato Marini del cosiddetto incarico "finalizzato" ci farà presumibilmente assistere nei prossimi giorni.
Pur fautori della più tenace opposizione all'esecutivo appena caduto, non si può non rilevare che, passando per un momento dal caso particolare al generale, se i governi continuano a cadere prima della loro scadenza naturale, e con i soliti metodi da 25 luglio, è perchè, sotto sotto, esiste un malessere di fondo ancora peggiore del fatto in sè che, per cinque anni, a governare la Nazione non siano i "nostri": qui si tratta di una sconfitta per quanti, di qualsiasi appartenenza plitica, ritengono assolutamente primario l'obettivo di costruire un sistema finalmente basato sulla vera alternanza al potere di governi che, avendo stabilità e capacità per durare un'intera legislatura, come succede praticamente in tutte le democrazie evolute dell'Occidente, abbiano il modo di portare a compimento i loro programmi e di dare un'immagine di credibilità del Paese anche sul piano interazionale.
Tornando alla cruda attualità, non vogliamo certo entrare nel merito della decisione del Presidente della Repubblica di agire come ha agito: ciò gli è, e sempre gli sarà, consentito fino ad eventuali mutamenti parecchio radicali della Costituzione. Non ci si può però esimere dall'osservare che il tentativo Marini di ricompattare la vecchia maggioranza - o di crearne di nuove, che sarebbero oltremodo irrispettose della volontà degli elettori, per riformare la legge elettorale - ad occhio e croce non sembra avere concrete possibilità di successo e parrebbe utile soltanto a fare perdere del tempo prezioso, mentre invece le condizioni per una maggioranza sicura di centro-destra in seguito a nuove elezioni, probabilmente, sussistono anche considerata la non eccellentissima legge elettorale attualmente in vigore. La parola torni dunque alle urne il più presto possibile, dopo di che ci sarà senz'altro modo di riformare questa ed altre leggi e, auguriamocelo vivamente, di compiere sempre maggiori passi avanti verso l'edificazione di quella democrazia sana, compiuta e funzionante che tutti vogliamo e che, al momento, non appare purtroppo ancora vicinissima.
Così potremo davvero archiviare tutti i 25 luglio della nostra Storia in un buio periodo da non riesumare.
Tommaso Pellegrino

giovedì 17 gennaio 2008

MA QUANTO E' RIDICOLO QUEL CERTO ANTICLERICALISMO...

L'intolleranza e l'antidemocraticità dimostrate da quel pugno di sedicenti dotti professoroni e dal loro degno discepolame nell'impedire a papa Benedetto XVI di intervenire alla solenne cerimonia presso la loro università, che, malgrado l'accaduto, ci si ostina ancora a chiamare "la Sapienza" (???), sono per lo meno pari allo sconcertante patetismo e all'anacronismo di quel certo modo di essere anticlericali e di intendere la laicità sfoderati in questa ben poco edificante vicenda.
Oggi l'anticlericalismo come logica conseguenza del libertarismo, dela genuina aspirazione ad una vita civile regolata da leggi ed istituzioni svincolate dai dettami e dalle autorità proprie di una data religione, può senz'altro dirsi che non abbia più ragione d'essere almeno da oltre mezzo secolo a questa parte ed in questa parte del mondo.
Un liberalaccio fino al midollo come chi scrive non può naturalmente non comprendere, ad esempio, le ragioni di un anticlericalismo risorgimentale, inteso come rigetto del potere temporale di un clero che allora intralciava il processo di democratizzazione e di unità nazionale, ma si trattava qui di un sentimento ben diverso dall'ostilità verso la missione nel campo spirituale e morale di una Chiesa, che è di sua stretta competenza, diversamente dalle funzioni temporali. Basti pensare che proprio uno dei maggiori tra quegli stessi "anticlericali" sfegatati dell'epoca, un certo Giuseppe Mazzini (scusate se è poco), dichiarava di provare per gli atei una grande pena, segno che la sua non era avversione al messaggio diffuso dal clero nelle sue funzioni "istituzionali", bensì agli abusi perpetrati dallo stesso in ambito "terreno".
Oggi non esiste più un reale potere politico nelle mani dei vertici ecclesiastici, nè una loro possibilità di ingerire pesantemente nella vita delle democrazie tramite l'operato di forti partiti-longa manus disciplinatamente assoggettati alle loro direttive.
Accusare la Chiesa di interferire nella vita politica nazionale, o definire spregiativamente il papa "capo di uno stato estero", sono atteggiamenti oggi quanto meno ridicoli: il Pontefce non ha la minima intenzione di pilotare in alcun modo l'attività dei nostri legislatori, nè avrebbe i mezzi per farlo, tant'è vero che questa è sempre andata avanti indipendentemente da ogni suo auspicio o dissenso. Quanto poi a cosituire una minaccia come "capo di uno stato estero", gli mancano quelle divisioni di cui Stalin si chiedeva quante fossero e, se anche le avesse, non le userebbe: è uomo di pace, il papa, talmente di pace da prestarsi troppo spesso, involontariamente, ad essere sfruttato persino dai soliti pseudopacifisti ed elementi da sbarco vari, di fatto distanti anni luce dal suo vero universo di valori, e magari pronti a dargli addosso non appena qualche altro suo intervento non torni altrettanto comodo ai loro quasi mai cristallini fini.
Posto che la Chiesa non può costituire in alcun modo un pericolo per la libertà, la laicità e la democraticità delle istituzioni, non si può tuttavia pretendere che essa rinunci alla sua autentica ed unica missione di esortare continuamente al rispetto dei valori di cui è custode, e che lo faccia con tutti i mezzi a sua disposizione. Metterle, in qualsasi occasione, il bavaglio sarebbe, oltre che un intollerabile affronto alla libertà di espressione che va riconosciuta a chiunque, un passo avanti verso forme di intolleranza religiosa tipiche di ben noti sistemi illiberali, che sono l'esatto opposto delle vere società laiche.
Tommaso Pellegrino